Filiberto Molossi Filiberto Molossi

Hunger games: l'ultimo atto di una saga più adult che young

Lo hanno girato anche a Parigi, hanno sparato e sono morti per finta in quelle strade dove poi, altri, solo sette giorni fa, hanno sparato e sono morti davvero. Fai fatica a non pensarci quando senti la prima raffica di mitra e nella doppiezza schizofrenica del cinema qualcuno pronuncia una frase che sembra uscita dal tg: «Vogliono distruggere il nostro modo di vivere». Solo che a dirlo stavolta e' il tiranno, il carnefice... Per quanto prima fosse feroce e crudele, d'ora in poi non e' più un gioco: non e' tempo di buoni e cattivi in «Hunger games», la saga fantasy, più adult che young, arrivata al finale di partita. Altri profughi, altri treni, altri civili uccisi: amaro e dolente, cinico e cupo come solo petrolio (protagonista di una delle scene più spettacolari) sa essere, l'ultimo atto del fenomeno cinematografico tratto dai romanzi di Suzanne Collins si porta dietro lo choc post traumatico di una guerra che e' sempre. E lascia ferite, cicatrici, intossica le coscienze, fa vacillare un già incerto sé. Uno scontro senza regole (tantomeno quelle etiche) dove Katniss, costretta suo malgrado a indossare i panni del simbolo, si batte per rovesciare finalmente il dittatore: rischiando di rimanere intrappolata nel gorgo lurido del potere. Pedina di uno spettacolo kitsch e sanguinario di cui adesso vuole riscrivere il copione.
Da eroina fantasy a personaggio tragico, la parabola della ghiandaia imitatrice votata al martirio (che ha dato popolarità mondiale a Jennifer Lawrence, una che, a 25 anni appena, ha dimostrato di sapere fare qualunque altra cosa, vincere un Oscar compreso) è completa: e se l'epilogo risulta un po' posticcio e alcune dinamiche della sfera privata avrebbero potuto essere sviluppate con maggiore finezza, il sipario cala comunque con una violenza e una presa di coscienza che superano con maturità le logiche e i tranelli del kolossal per teenager.
Efficace compromesso tra war movie, catastrofico e fantascienza antitotalitarista, il film di Francis Lawrence sposa il cinema di guerriglia facendo di questo quarto «Hunger games» un combat movie, a tratti circolare altre più labirintico e sotterraneo, attraversato dal senso di colpa, sfinito dagli eventi, segnato dai dubbi. Non conta tanto il coraggio, né il sacrificio: quanto l'affannosa ricerca di un angolo di pace dove sopravvivere agli incubi. E fare riposare anche chi (anche nella realtà, come Philip Seymour Hoffman, che qui spegne l'ultimo sorriso) è caduto lungo la strada. 

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Filiberto Molossi Filiberto Molossi

"Se noi bruciamo voi bruciate con noi": parola di Katniss

«Se noi bruciamo, voi bruciate con noi».
Il canto della rivolta è una ballata triste, un appuntamento all'albero degli impiccati: la melodia sussurrata e malinconica di chi sa che lo scontro decisivo è solo rimandato, che la pace, qualunque sia il suo tempo, è figlia del sangue e sorella della tempesta. 
Guarda il cielo, ma si rinchiude sottoterra, nelle viscere del tormento, in un rifugio metallico e claustrofobico che è anche condizione esistenziale, isola e prigione di uno smarrimento comune, di una medesima apnea, il capitolo finale (ma questa è solo la prima parte...) di «Hunger games», la saga antitotalitarista e orwelliana che al primo giorno d'uscita ha portato al cinema 100 mila italiani, record stagionale. 
Romantico e guerriero per definizione e ora più che mai ribelle e cupo, il terzo atto delle avventure di Katniss Everdeen, la ragazza-messia che, futuribile Giovanna D'Arco, sogna di essere solo una donna ma è chiamata a diventare un simbolo («tutti quanti vorranno baciarti, ucciderti oppure essere te»), indossa il solito costume young adult attingendo all'iconografia classica (i bombardamenti notturni del Distretto 13 ricordano quelli della seconda guerra mondiale, così come la liberazione di Peeta richiama alla memoria l'operazione per uccidere Bin Laden...) per riflettere - nell'inevitabile guerra tra il potere di uno e la rabbia di tutti - su temi trasversali come l'uso deviato dei media e la manipolazione, là dove la battaglia da vincere è prima di tutto quella della propaganda. 
A tratti teso, anche spettacolare, il fanta kolossal di Francis Lawrence, pur efficace, è però il classico film di passaggio, o film esca: ti invoglia a vedere come andrà a finire, ma non aggiunge molto (a parte il bello, anche se parecchio annunciato, strappo finale) a quanto già detto.  Dedicato a Philip Seymour Hoffman (morto prima di finire le riprese della parte II), il nuovo «Hunger games» è afflitto poi dal doppiaggio stonato di Jennifer Lawrence: per quanto la voce sia la stessa che ha accompagnato l'attrice in tutta la serie (ma non nelle altre sue pellicole), il fastidio è pari solo all'ostinazione di chi crede ancora (erroneamente) che guardare un film con i sottotitoli sia più  faticoso che salire a piedi fino all'ultimo piano dell'Empire State Building.

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