Neruda, il canto generale di Larrain
Questa è la storia di un fantastico inseguimento. Fantastico, innanzitutto, perché è sì accaduto, ma non in questi termini. Ma anche perché surreale, grottesco, denso, ardito, metaletterario, epico. Un film a due voci (una lirica, la seconda interiore) che si creano l'una con l'altra fino a fondersi per diventare la stessa storia. In un mondo che forse è solo il frutto dell'immaginazione di un poeta. O di chi gli dà la caccia.
Contro biopic kitsch e felliniano dove più dell'uomo viene raccontato, anzi trasfigurato, il mito, <Neruda> è il canto generale di sovraesposto e pirandelliano realismo del miglior regista della sua generazione, il 40enne cileno Pablo Larrain: che gioca con la falsificazione, rifiuta l'agiografia e abiura il didascalismo per girare un film sovrabbondante e <grasso> in cui mettere in scena (e a nudo) il corpo dell'artista, la sua smisurata, e a volte sgradevole, grandezza.
Nel '48, Pablo Neruda (Luis Gnecco), poeta carismatico e senatore comunista, viene messo al bando dal suo Paese: accusato ingiustamente di tradimento, deve nascondersi e fuggire. Ma è inseguito da un giovane prefetto (Gael Garcia Bernal), che lo vuole consegnare alla giustizia a tutti i costi...
I continui movimenti circolari, il grandangolo, gli stacchi, quei lenti carrelli a uscire: stilisticamente ricchissimo e complesso, anche a livello di fotografia, nel modo di dosare (e usare, nonché osare) la luce, il film di Larrain (di cui a febbraio uscirà un altro biopic non convenzionale, il bellissimo <Jackie>) sorprende per visione e per scrittura, abbandonandosi a un abbraccio decadente, beffardo e malinconico al protagonista e al poliziotto creato a sua somiglianza, fragile e impotente guardiano di una frontiera immaginaria che segue l'aquila senza saper volare, comparsa solitaria (di un romanzo dove è di passaggio) in cerca di ruolo e di memoria. Figura tragica e senza identità, che si affanna a inseguire ciò che non può raggiungere: in un duello quasi metafisico tra invisibili condannati a sfiorarsi, come nel potente e magnifico finale nella neve dove tutto, anche la morte, diventa poesia. Segno, firma ed espressione politica del film profondamente nerudiano e molto ma molto intelligente di un autore che nel ritratto in controluce di una leggenda coglie, senza temere omissioni (<per scrivere bene bisogna sapere cancellare>), il soffio di una narrazione che sfugge a catene e costrizioni, parte, prima che di una storia, di un sentimento. E di un'ossessione.