Un altro giro, la crisi di mezza età in fondo al bicchiere
Questo non è un film sul bere. È un film sui limiti: morali, umani. personali. E non è nemmeno, a guardare bene, un film sull'alcol: ma, piuttosto, sul potere d'attrazione dell'alcol, sul suo fascino «facile» e immediato, sulla sua capacità di aprire la strada verso l'euforia o l'oblio: le medicine più efficaci contro lo stallo di un'esistenza che non sembra più andare da nessuna parte. È bravo Vinterberg e mica da oggi: scomoda Kierkegaard e la natura del fallimento per raccontare, in modo divertente e amarissimo, la sua generazione (50 e più), facendo degli amici miei e della bottiglia gli alcolisti non anonimi di un Paese in costante stato d'ebbrezza, vittime (in)consapevoli dell'inevitabile crisi di mezza età convinte di risolvere i propri disagi affogandoli in un bicchiere dopo l'altro. C'è del marcio in Danimarca, è cosa nota: ma la lezione stavolta è universale così come il cinema del regista de «Il sospetto» che affronta in modo assolutamente originale, stando ben attento a non scadere nella denuncia o nella retorica, una piaga sociale, là dove la dipendenza non è il peggiore dei problemi, quanto la cartina di tornasole di chi cerca disperatamente un alibi alla propria resa o addirittura la giustificazione scientifica ai propri vizi, alle proprie debolezze. Provocatorio, scorretto, «Un altro giro» (Oscar per il miglior film internazionale e una pioggia di Efa), animale raro anche nell'ambito del cinema d'autore, diffida degli astemi (lo era pure Hitler...) e lascia campo libero a Martin (Mads Mikkelsen, bravissimo) e ad altri tre insoddisfatti professori di liceo che decidono di sperimentare su stessi la stravagante teoria di uno psichiatra norvegese secondo cui bere alcol con una certa metodicità migliora la vita. E in effetti i primi risultati sono incoraggianti: i quattro si scoprono più vitali e sicuri di sè, riacquistano fiducia. Ma ci prendono gusto: e finiscono per esagerare... L'alcol come piacere sociale, fuga dalla realtà, consolazione, terapia: in una nazione dove «tutti bevono come pazzi», Vinterberg guarda attraverso il vetro smerigliato del bicchiere la deriva e la caduta di un uomo che, mentre la moglie non ha tempo di ascoltarlo e i figli nemmeno ci pensano, ha perso se stesso, quello che era, quello che non è diventato. E ne fa il simbolo danzante dell'incapacità di dare un esempio alle nuove generazioni, di una comune sconfitta esistenziale, ma anche della necessità di prendersi dei rischi, di ricominciare a vivere, a qualunque costo e in qualsiasi modo.