Terminator: se il vecchio Schwarzy incontra se stesso più giovane
<Sono vecchio, non obsoleto>. Dice di essere un esubero, ha i capelli prima tinti e poi bianchi e qui lotta addirittura, suonandogliele di santa ragione (in una scena cult...), con il suo se stesso di trenta anni più giovane. E sì, ti fa anche un po’ di tenerezza: proprio lui, ex culturista con un cognome impronunciabile partito per Hollywood da un paesino dell’Austria, che, tra un film e l’altro, è diventato una star, ha sposato una Kennedy e ha persino governato la California...
Certo, un po’ rigido (tipo che un’asse da stiro si muove con maggiore scioltezza...) lo è rimasto: ma più che gli anni (68 a fine mese) potè il ruolo. Perché Arnold Schwarzenegger torna, a 12 anni dall’ultima volta e ben 31 dall’inizio di questa fortunatissima saga, a giocare al robot: cyborg umanissimo (e non ancora arrugginito, almeno non del tutto) del quinto «Terminator». Una sorta di falso reboot che rilancia le ambizioni (ma sarà il botteghino ad avere l’ultima parola) della cine-serie portata al successo planetario da James Cameron, nel tentativo (lo stesso dei protagonisti del film) di modificare i connotati alla storia («non mi devi salvare, la musica è cambiata...») per resettarla e farle prendere un’altra strada. Spettacolare e «politico» nella sua ribellione alla dittatura tecnologica (la promessa diabolica di un mondo connesso permanentemente, che poi è già qui, è già questo...), «Terminator Genisys» salta senza paracadute dal 2029 al 1984 per rimbalzare in un più comodo e contemporaneo 2017: una serie di scarti temporali dove si può abbracciare anche un figlio che non si è mai avuto, mentre si cerca di garantire un futuro a sé e al mondo. L’action tiene, ma gli effetti sono vintage, l’aria è da b-movie, l’improbabile spesso oltre la decenza: e la densità malinconica dell’originale viene un po’ smarrita e dissipata nella voglia di fare casino. Per fortuna però Schwarzy (chiamato ancora una volta a proteggere Sarah Connor, che qui ha il volto di Emilia Clarke, superstar del televisivo «Il trono di spade», ancora acerba però per essere una credibile eroina cinematografica) porta in dote al film una salutare (il regista Alan Taylor in fondo aveva debuttato con una commedia, il gioiellino «Palookaville») auto-ironia: l’humor e la voglia di non prendersi troppo sul serio di chi ne ha viste parecchie e ne vorrebbe vedere (e fare) altrettante.
La Bier, l'etica e il ladro di bambini: date al film una (second) chance
Avrebbe potuto essere un film sul lutto, una risonanza emotiva sull'impossibilità di accettare l'inaccettabile: abitare l'assenza e fermarsi lì. Invece l'ultimo lavoro della danese Susanne Bier è un dolorosissimo thriller esistenziale, una pellicola schiacciata dalla colpa e soffocata dalla menzogna, la tragedia (attuale ma con molti echi a quella classica) di chi per riempire un vuoto ci precipita dentro. Un film a suo modo terribile, <Second chance>, che mette ancora al centro dell'osservazione (e dell'ossessione) dell'autrice di <Dopo il matrimonio> e <In un mondo migliore> (Oscar 2011 per il miglior lungometraggio straniero) la famiglia, la coppia: con i suoi tormenti, le dinamiche segrete, le contraddizioni, i laceranti dilemmi morali, le scelte estreme, la cappa del non detto, la pace solo apparente e piatta dell'inferno borghese. Una anormale normalità (quale di queste due parole, mi chiedo, andrebbe messa tra virgolette?) su cui si posa uno sguardo livido e angosciante (come il montaggio: serrato, ansioso) che alza a dismisura l'asticella della crudeltà dal momento in cui mette in scena, nel peggiore dei mondi possibili, la morte di un neonato, quello di un poliziotto perbene (Nicolaj Coster-Waldau, visto in tv ne <Il trono di spade>) e della sua bella moglie che quel figlio l'hanno desiderato a lungo...
Maltrattato molto oltre i suoi demeriti da parte della critica britannica e, sguaiatamente (e ingiustamente), anche da certi siti italiani, <Second chance> è in realtà un dramma etico e minaccioso che su un archetipo sfruttato sia dal cinema che dalla letteratura (il <changeling>, lo scambio di bambini) costruisce una storia tesa, sopraffatta, sempre sul punto di rottura: un'aggressiva (seppure intimista) rappresentazione umana in cui le strade di due famiglie corrono parallele, sovrapponendo l'una all'altra le proprie conclamate differenze, sacrificandole inconsapevolmente a un destino che farà a pezzi le certezze degli uni come quelli degli altri. E' vero, certe svolte sono telefonate (il genere a tratti inibisce il suo cinema dell'anima) e rispetto ai film che l'hanno resa famosa la Bier (che non è Vinterberg, anche se forse vorrebbe) sembra avere perso un po' di ispirazione e sicurezza: ma va detto d'altro canto però che l'autrice sa calarsi nell'oscurità senza paura di smarrirsi. Per metterci costantemente alla prova: valicando i limiti di una ragione che limiti non ha.