Insonne, scomodo e violento: Tom Ford va a caccia di Animali notturni
E' un film violento e insonne, intenso e scomodo, tesissimo e traumatico: e pieno di rimpianti, di rimorsi, di sbagli che non si possono correggere. Né cancellare. Un thriller esistenziale ansiogeno e appassionante che ti conquista già dalla prima, strepitosa, sequenza, dove, sui titoli di testa (i più belli e sorprendenti di quest'anno), ballano donne dai corpi sfatti e nudi, flaccidi e devastati, vecchi e moribondi, mostrando fiere, insieme al declino dell'impero americano, il ghigno di un'epoca di volgare e orrenda opulenza. In un mondo <fatto di nulla> dove <a nessuno piace davvero quello che fa>, l'opera seconda di un <single man> che da ragazzo voleva fare l'attore ma poi, pensando di non essere bello abbastanza, ha preferito diventare uno dei più grandi stilisti del mondo: e ora, sette anni dopo il suo debutto, torna al cinema a caccia di <Animali notturni>.
Uno come Tom Ford, esteta geniale che gira un film feroce e spigoloso prendendo in prestito <Tony e Susan>, un libro di Austin Wright, per raccontare di una mercante d'arte di successo (Amy Adams, tesa come una corda di violino, segnata da un trucco che pare una maschera) delusa da tutto (se stessa compresa) che un giorno riceve il romanzo scritto dall'ex marito (l'intenso Jake Gyllenhaal): una storia di dolore e di vendetta che non può lasciarla indifferente...
Tradotto quello che sulla carta era un monologo interiore in un triplice percorso narrativo (il lussuoso ma annoiato quotidiano della protagonista, i ricordi del rapporto con il marito che ha lasciato e infine la vicenda, tragica, sviluppata nel romanzo), Ford (premiato a Venezia con il Leone d'argento) lavora su mondi paralleli che - pur visualizzando con stili, registri e ambientazioni marcatamente e volutamente differenti (dalle geometrie dalla Los Angeles upper class fredda e meccanica alla rabbia scomposta di un Texas assolato e fisico) -, fa coesistere ed entrare, con grande abilità, in qualche modo in contatto, firmando un film emozionante nel suo ridefinire emotivamente un delitto e castigo dei sentimenti.
Costruita benissimo, con raffinata maestria, forte di interpreti perfetti (non solo i protagonisti, ma anche i <comprimari> di lusso come Michael Shannon e Aaron Taylor Johnson), <Animali notturni> è una pellicola stratificata e cinica dove l'incubo americano gronda disillusione, deriva e malattia, lasciando allo spettatore il privilegio di osservare da vicino un mondo dove tutto muore, che non conosce (e probabilmente non merita) salvezza. Né, soprattutto, perdono.
Un uomo chiamato sciacallo
Questo film è un animale a sangue freddo. Ha la pelle liscia del rettile ed è velenoso quanto e più di un serpente. Striscia, anche quando corre: e sa aspettare. Tutto il tempo che serve. E' un predatore, una creatura della notte: dagli occhi fuori dalle orbite e dai denti aguzzi, affilati come coltelli. Una bestia metropolitana assetata di sangue. Perché, se ancora non lo sapete, «il sangue fa audience».
E' una riflessione disincantata e feroce sulla violenza dei media, un atto d'accusa contro i notiziari che vanno in onda all'ora dei vampiri trasformando le tragedie in punti di share, «Lo sciacallo»: e allo stesso tempo (e non potrebbe essere altrimenti) anche una critica tagliente del morboso voyuerismo di un pubblico che si nutre, senza catarsi possibile, del dolore altrui. Ma è anche un film che va molto oltre l'ovvio: e fissa, senza distogliere lo sguardo, la faccia deforme del sogno americano, il Paese dove ognuno ha un'opportunità: ma in cui solo chi morde la gola del sistema, calpestando nel deserto dell'etica ogni regola civile, può davvero essere all'altezza delle proprie ambizioni.
Sinistro e minaccioso, lo scarno e psicotico (e assai efficace) debutto dietro la macchina da presa dello sceneggiatore Dan Gilroy si immerge nella notte più fonda di un'epoca senza scrupoli dando vita a un film cinico e spietato sul degrado culturale di un mondo dove i social hanno ucciso da un pezzo la privacy e nemmeno la morte ti protegge dall'orrore di una non richiesta notorietà. Nella solitudine losangelina, dove solo il gracchiare dello scanner rompe il silenzio, Lou, ladruncolo senza arte né parte, si inventa un mestiere: e, armato di telecamera, filma gli eventi più cruenti per rivendere le immagini a tv locali a caccia di scoop 24 ore su 24...
Cucito addosso a uno splendido personaggio di terrificante attualità (che è e fa il film) un intrigo che lambisce il thriller, Gilroy misura l'assenza di battito di un'America spiantata, senza lavoro, spersa, aggressiva, avida: osservando l'abisso di una generazione senza padri né madri (ma perennemente connessa) che manipola la verità (da «testimoni» ad «autori» della notizia) piegandola ai propri scopi (o a quelli dell'audience). Non riconciliato, anti moralistico, cattivo senza compiacimenti, «Lo sciacallo» è una pellicola compatta dall'inizio alla fine che fa il salto di qualità grazie anche all'interpretazione da Oscar di un inedito e strepitoso Jake Gyllenhaal: che dimagrito 8 chili, scavato e maniacale, porta in giro una faccia da coyote affamato, mentre negli occhi gli brilla il lampo di una lucida follia.