La corte, il processo ai sentimenti
E' una valigia col doppio fondo, un dolce inganno, una giornata di quelle che piove col sole, che al mattino è ancora inverno e al pomeriggio già primavera. Un film curioso e ricamato, <La corte>, che pattina elegante sul ghiaccio più sottile, senza paura di mescolare temi e stili, mood e debolezze: tanto da trasformare un'aula di tribunale in un palcoscenico, fingendo di appassionarsi – nel teatro della vita - al genere processuale per mutarlo invece, con tocco gentile e assai felice (tipico dei francesi: gente che prima di andare in ufficio fa la punta alla matita), nella cornice di una raffinata e acuta commedia sofisticata.
Piacevole sorpresa dell'ultima Mostra di Venezia, dove ha vinto con merito il premio per la miglior sceneggiatura e quello per il miglior attore protagonista (Fabrice Luchini), <La corte> (traduzione banale e un po' sciatta dell'originale <L'hermine>, l'ermellino indossato dai magistrati) disegna con tocco minimale, <lieve>, e bella scrittura teatrale (frasi che non cadono nel vuoto, ma ballano in un sottofondo di sentimenti), il ritratto di empatica sincerità del giudice <a due cifre> (le sue condanne non sono mai inferiori ai 10 anni...) Racine (nome probabilmente non casuale), severissimo e poco amato anche dai colleghi, ma in realtà - nel privato -, tenero e impacciato. Come confermerà - durante il terribile processo a un giovane padre accusato di aver ucciso il figlio di 7 mesi -, anche l'incontro casuale con un'anestesista (la danese Sidse Babett Knudsen, premio César per la miglior attrice non protagonista), conosciuta anni prima e mai davvero dimenticata.
Abile nel cambiare di continuo tono e colore del film con grande agilità e senza forzature, il regista Christian Vincent (che avevamo imparato a conoscere grazie a <La timida>, debutto fortunato e di gran classe che è ancora tra le sue cose migliori) cura con amorevole attenzione i dialoghi lasciando che il resto lo faccia il suo protagonista, nato bravo. Costruendo così una pellicola che seduce per sensibilità, e, in un registro che è doppio se non triplo, schiva tutti i luoghi comuni; costringendo chi è chiamato a scrivere una sentenza difficile ad attenderne un'altra non meno importante: da giudice a imputato nel<processo> dei suoi stessi sentimenti.