Belfast, è stata la mano di Branagh
«Fai il bravo. E se non puoi fare il bravo, fai attenzione». E' un film affettuoso e struggente, amaro, ironico, tenero e nostalgico, girato ad altezza bambino, con la cinepresa spesso piantata per terra e gli occhi spalancati su una realtà che sa essere magnifica e terribile, «Belfast»: «la mano di Dio» di Branagh che (dopo Sorrentino e poco prima di Spielberg) torna all'infanzia (la sua, irresistibilmente cinematografica e convintamente nordirlandese), per dedicare questo salto all'indietro senza rete, molto bello e molto sentito, a chi è rimasto, a chi se ne è andato e a chi, invece, si è semplicemente perso. Partite a pallone e filo spinato, tabelline e perquisizioni, la ragazzina bionda del primo banco e il coprifuoco: quando in strada scoppiavano le molotov, ma si poteva ancora ballare. E il coperchio di un bidone della spazzatura era lo scudo per affrontare i draghi. Oppure i sassi dei giorni dell'Ira. Dichiarazione d'amore alla città che lo ha visto crescere e che è stato costretto a lasciare troppo presto, «Belfast», candidato a sette Oscar (tra cui quello per il miglior film) e vincitore del Festival di Toronto, è il film più personale e intimo di un regista capace di sbancare i botteghini nei panni di Poirot, passando con disinvoltura estrema (e discreto becco di ferro) da Shakespeare a Thor e Cenerentola, senza però mai tradire (o, peggio, abiurare) la meraviglia del cinema che lo travolse sin da bambino, quando in sala le automobili volavano e in tv davano «Mezzogiorno di fuoco» e «L'uomo che uccise Liberty Valance». Girato nel bianco e nero luminosissimo della memoria (che sostituisce il colore del prologo in un'apertura di grande impatto ed efficacia che già dice tutto), «Belfast» punta la macchina del tempo sull'anno domini 1969, quando, ad agitare l'infanzia felice di Buddy (Jude Hill, deb favoloso) arrivarono i «troubles», il conflitto tra cattolici e protestanti che portò il Paese al caos. Una tragedia nazionale che trasformò la strada dove abitava la famiglia (protestante e pacifica) del regista in un campo di battaglia. Eppure l'amore poté più della violenza, il ricordo, anche nel dramma, sa di zucchero. E sulle note di Van Morrison, Branagh, nella sua rievocazione semiautobiografica, trova primi piani che parlano, un bel taglio e un cast perfetto anche nei caratteristi. Nella consapevolezza di non avere lasciato indietro nessuno: perché qualcuno deve rimanere per forza. «Se no chi proverà nostalgia per chi se ne è andato?».
Dardenne, la vita (e l'etica) al tempo dei licenziamenti
La vita al tempo dei licenziamenti: rinuncereste a mille euro (di cui probabilmente avete bisogno...) per salvare il posto di una collega? E' un film sulla nostra epoca, incastrato a forza dentro l'oggi, di cui conosce e riproduce la stessa, insopportabile, nausea, l'ultimo, attualissimo e ispirato, apologo dei fratelli Dardenne. Nel pilatesco gioco al massacro di una società in esubero, una pellicola che ci chiede di metterci per due giorni e una notte nelle scarpe degli altri: che sono strette anche più delle nostre.
E' tutto giocato su un dilemma di coscienza, sulla linea assai sottile che divide un sì (per nulla scontato) da un no (che non sempre è da biasimare), l'emblematico e riuscitissimo film sulla crisi che i due registi belgi hanno girato nella depressa Europa, trasformando, con imprevedibile ottimismo, una storia di disperazione in un percorso di rinascita, facendo della dignità individuale, dove più feroce infuria la guerra tra poveri, il manifesto di una nuova, consapevole, «resistenza».
Una vicenda, quella raccontata (con incalzante suspense) da «Due giorni, una notte», che sarebbe potuta essere ambientata senza difficoltà, come hanno detto gli autori, anche in Italia: Sandra, un marito e due figli, rischia il posto dopo che alcuni seri problemi di salute l'hanno tenuta lontana dal lavoro; se vuole conservare l'impiego deve convincere più della metà dei suoi colleghi a rinunciare al bonus. Qualcuno è pronto a venirle incontro, altri molto meno: c'è chi ha il figlio da mandare a scuola, chi deve pagare le rate del frigo, chi semplicemente non ne vuole sapere...
In una «questua» che ricorda da lontano (ma non troppo) quella del vecchio sceriffo di «Mezzogiorno di fuoco», i Dardenne - con il solito, scarno e insieme profondo, stile neorealista (da pedinamento zavattiniano) - accompagnano in un film etico e civile una struccata e strepitosa Marion Cotillard - tutta lacrime e nervi - nella via crucis del presente, tra la pena di chi deve chiedere aiuto e l'imbarazzo di chi è stanco di fare rinunce: ma nello smarrirsi della solidarietà di una classe operaia che nemmeno stavolta andrà in paradiso, i fratelli belgi denunciano soprattutto come sia la mancanza di speranza e di orizzonti la vera malattia collettiva (e invalidante) della nostra epoca, là dove la riscossa, personale prima che professionale, passa solo dall'umana riconquista del rispetto di sè.