Still Alice, l'arte di perdere tutto
Non so voi, ma io a volte ci penso: dove vanno le persone che si perdono, che si smarriscono? Che non sono già più anche se sono ancora: e diventano la nota stonata di una partitura che nessuno tranne loro comprende? In che mondo sono, in quale distante universo, in quale altrove di codici interrotti?
Prima ti scordi una parola, poi un appuntamento, poi te stessa: poeticamente, potresti definirla <l'arte di perdere tutto>. Ma in questi casi di poesia, purtroppo, ne resta davvero poca: svanisce anche quella, in un lontano oblio, come tutto il resto. Perché averci a che fare significa non ricordarsi la strada per il bagno di casa, litigare e dimenticarsi, un attimo dopo, perché lo si è fatto, guardare negli occhi la propria figlia e non sapere chi diavolo sia: non è solo un morbo, questo, è un'emergenza sociale. Una malattia che ti esclude dal mondo, che taglia i ponti tra te e il tuo passato. Il dramma dell'Alzheimer (la terribile sindrome da cui sono affette 36 milioni di persone) in un film co-diretto da un regista malato di Sla che ha perso l'uso della parola (oltre che delle braccia e delle gambe) e che probabilmente regalerà a Julianne Moore il primo, meritatissimo, Oscar: un rapido, inesorabile, smarrirsi che oltre che dramma privato è anche condizione esistenziale.
Fatto suo il motto cechoviano <bisogna vivere>, amarissimo eppure non disperato, <Still Alice>, tratto da <Perdersi>, best seller della debuttante Lisa Genova, racconta la parabola di un'affermata docente di linguistica cinquantenne, moglie felice e madre di tre figli, a cui viene diagnosticata una forma precoce di Alzheimer...
Ansiogeno, angosciante, <Still Alice> materializza sullo schermo la perfida deriva dell'Alzheimer: il baratro in cui si smarrisce il proprio io, lo sgretolarsi di ogni sicurezza, di ogni conoscenza acquisita, quel lento, inesorabile, scomparire ai propri occhi e a quelli degli altri. Una caduta irreversibile segnata dall'intollerabile frustrazione di non riuscire più a essere se stessi di cui il film di Richard Glatzer (presente ogni giorno sul set nonostante a causa della Sla non potesse più né mangiare né vestirsi da solo) e Wash Westmoreland dà una severa e lucida testimonianza, mostrando anche le conseguenze del morbo sulla famiglia di Alice, in particolare nel rapporto tra la protagonista e la figlia ribelle (Kristen Stewart). Seppure diretto in maniera piuttosto convenzionale, il film sa però essere emozionante (come nel caso del discorso in pubblico di Alice) e ha dalla sua una Julianne Moore capace di restituire con misura e intensità (<io non sto soffrendo, sto lottando>) l'orrore senza parole di una memoria che muore.