Whiplash, la condanna del talento di un outsider da Oscar
Lo ha girato in appena 19 giorni (poi mi spieghi come hai fatto) un ragazzo di appena 30 anni, Damien Chazelle, il film americano che ha sbancato il Sundance e poi a Cannes è stato salutato da un autentico boato. Un applauso interminabile che l’ha portato fino all’Oscar: 5 nomination (tra cui quella per il miglior film) e l’etichetta di outsider dell’anno.
Storia ritmatissima, prima leggera, poi drammatica infine perfida ed esaltante, di Andrew, un timido batterista jazz che vuole sfondare, «Whiplash» gioca molto sul consolidato, e a tratti anche ferocemente divertente, dualismo tra insegnante intrattabile e crudele e allievo ostinato e brillante per evolversi però in una pellicola sull’ossessione e la condanna del talento, sull’ambizione (e il «dovere») di essere il migliore di tutti, là dove, nella furiosa ripetizione del gesto, si cela il desiderio (spesso cieco) di diventare qualcosa o perlomeno qualcuno (o, magari, semplicemente «leggenda»), a costo di sacrificare tutto, amore, dignità, se stessi. Perché l’arte è proprio questo: magia sì, ma di più fatica, rinuncia, sangue.
Scritto bene, con dialoghi musicali, dallo stesso regista, qui all’opera seconda, «Whiplash» alterna virtuosistiche e tiratissime jam session da applausi a scena aperta (l’autore ha lasciato che il protagonista, Miles Teller, suonasse fino allo sfinimento...) a potenti e velenosissimi duelli verbali, alzando di volta in volta la posta in gioco. C’è il successo come martirio, oltre che l’amore per la musica e la ricerca della perfezione: Chazelle celebra la forza della determinazione ma non ne nasconde il prezzo. Ma se il suo film funziona deve dire grazie anche agli interpreti: all’abnegazione di Teller (che suona la batteria da quando aveva 15 anni), ma in particolare al talentaccio di J.K. Simmons (è il terribile docente: confronto a lui il sergente di «Full metal jacket» sembra un boy scout) che dopo decenni da caratterista si mette, con prepotenza, al centro della scena.