Vent’anni senza Sarre, mio padre
E' strano, se ci pensi: scrivo da figlio di un padre che figlio non lo è stato mai. Il destino progettò diversamente: suo padre morì mentre lui era ancora nella pancia di sua madre. Non fece in tempo a conoscerlo. Eppure visse di quella storia, di quella leggenda: quella di Gontrano e Pellegrino, nomi – come il suo, come il mio – di una volta, il padre e il nonno giornalisti che pur di non dovere rinunciare alla Gazzetta di Parma, “la vecchia cara Gazza saltellante” di cui erano anche proprietari, dissero di no a un non miserabile giornale di Milano, il Corriere della Sera. Potresti dire che c'entra il Dna, che forse è l'aria che respiri; ma da quando mio padre ha avuto coscienza (lo testimoniano i suoi diari) nella vita ha voluto fare una cosa e una soltanto: il giornalista. E la sua strada non poteva non incrociarsi con quella del giornale della sua città, la Gazzetta di Parma. A 22 anni viene assunto “quale collaboratore con compenso fisso lordo mensile di lire trentamila”; dovevano essere tre mesi in prova: ci rimase 42 anni. L'anno dopo diventa praticante, nel '57, ad appena 29 anni, addirittura direttore: è uno dei più giovani di sempre nella storia del giornalismo. Resta al timone 35 anni, altro record, e se avesse potuto sarebbe rimasto al comando di quel vascello corsaro altri mille. Di sicuro, l'avrebbe meritato: ha preso uno sgualcito giornale di provincia da 10mila copie e lo ha portato a venderne 50mila. Ma ha fatto molto di più: ha reso la Gazzetta un modello, un giornale che parlava a tutti (dal docente universitario all'ortolano della Ghiaia), autorevole e credibile anche a livello nazionale. Sarre, anche io ogni tanto lo chiamavo così, era un uomo coerente e dalla schiena dritta che non aveva paura delle sue idee, anche quando (e lo sono state) molto impopolari: ci metteva la faccia e – sempre – anche la firma. Senza fare pesare mai di avere avuto ragione (e succedeva molto spesso) ma senza nemmeno avere paura di chiedere scusa se si sbagliava. Per me era soprattutto papà, ma è indubbio che, visto da fuori, avesse un carisma innato: per i suoi giornalisti, molti dei quali lo veneravano, era semplicemente “il direttore”. Dava a tutti del tu: i guai cominciavano quando gli dava del lei. Era il segnale: significava che era arrabbiato sul serio. Salutava i tipografi tutte le sere - prima di tornare a casa a orari che adesso ci sembrerebbero folli - togliendosi il cappello e si fermava volentieri a parlare per strada con questo o quel lettore. Imprudentemente, un giorno che era già in pensione, suonarono a casa i testimoni di Geova: si precipitò giù a fornire, lui, laico, la sua visione teologica. Se ne andarono con un discreto mal di testa. Non piaceva a tutti, lo minacciarono in molti modi; una volta, sarò stato alle medie, mi imbattei in un grosso corteo: ce l'avevano con lui. Mettendo a posto le sue lettere (dove ci sono belle sorprese) ho trovato telegrammi di presidenti della Repubblica, messaggi di importanti poeti e artisti, missive di colleghi giornalisti anche molto famosi: ma anche lettere minatorie e le foto (teneva tutto, mio padre) delle scritte che gli riservarono sui muri, “fascista” (proprio lui che considerava Mussolini un pagliaccio...), “pennivendolo”, “giornalaio”, offendendo in quest'ultimo caso (per dirla alla Chicco Mentana) una categoria di onesti lavoratori che non ha mai avuto questi idioti tra i propri clienti. Successe anche che andarono in via Casa, a urlare e a tirare sassi. “E tu cosa hai fatto?” chiedeva preoccupata mia mamma: “Il gesto dell'ombrello: poi però ho chiuso la finestra...”. Era un uomo molto spiritoso e non lo dimostra solo “La Coda del diavolo”, straordinario e imitatissimo (ma inimitabile) pezzo breve di sferzante ironia. Amava il cinema francese degli anni '30 e i classici con Bogart ma rideva come un matto quando, spesso insieme a me, guardava i film di Totò. Alla Gazzetta ha dato più di quello che ha ricevuto: ma non se ne è mai fatto un cruccio. A volte l'Italia lo amareggiava, ma lo vidi piangere solo due volte: quando morì improvvisamente il suo amico Nicchio e per la mia meravigliosa sorella Ilaria, perseguitata dalla malattia e dalla cattiva sorte. Non si fece abbattere, e restò saldo nelle sue convinzioni, quando invece l'intera redazione del Carlino non lo volle come direttore. Incassò la solidarietà, tra gli altri, di Biagi e Montanelli e andò avanti per la sua strada: di lui parliamo ancora dopo 20 anni, quella patetica redazione bolognese l'ha invece inghiottita l'oblio. Il migliore insegnamento me l'ha dato che avevo appena un giorno: nell'editoriale “Lettera al figlio”, che mi ha dedicato quando sono nato. «Sii fermo e caparbio nella tua fede, ma anche benevolo e tollerante verso le convinzioni altrui; sii benigno agli umili e fiero con i potenti; ripudia la violenza come mezzo per risolvere le controversie e credi nella forza mitica e irresistibile della ragione». E' ancora il mio mantra, la pietra angolare, l'inizio e la fine di tutto. Citava spesso “Il porto delle nebbie”, un film diretto da Carnè e scritto da Prevert che amava moltissimo. Me li immagino così mio padre e mia madre: “Dove vai?” “Non lo so”. “Ti accompagno, andiamo dalla stessa parte”.