Dumbo vola, Tim Burton non più
E' il santo protettore degli outsider, il difensore d'ufficio dei freaks, dei diversi, degli emarginati, l'angelo custode di chi non è uguale (e nemmeno vuole esserlo) a nessun altro. E allora chi meglio per rilanciare il suo cinema di un famoso elefantino con le grandi orecchie, capace addirittura di librarsi in aria? In fondo, gli elementi del successo annunciato c'erano tutti: una creatura dolcissima e stravagante, un mondo crudele in cui tutti, prima o dopo, siamo orfani, il circo, luogo (anche) cinematograficamente deputato alla meraviglia. E all'illusione. Insomma, pensi a <Dumbo> in carne ed ossa (ed effetti digitali) e non ti viene in mente qualcuno che lo possa fare meglio di Tim Burton: è la sua comfort zone, la sua tazza di tè. E invece il grande regista di <Edward mani di forbice> e <Big fish> credeva di volare e non vola: gli manca la polvere magica, esaurita già da alcuni anni. E un po' di convinzione.
Era lecito attendersi un film più visionario, anche classico per carità (l'originale, vero cult dell'animazione, è del '41...) eppure moderno, potente, <politico>, contemporaneo. Ma Burton non riesce a trasformare questa fiaba della separazione e del ricongiungimento in un suo manifesto, in una pellicola esplicitamente dark, rimanendo un po' intrappolato nella formula del film per tutti, mostrandosi - nonostante la naturale empatia trasmessa dall'elefantino volante che, nell'America di un secolo fa, diventa la grande attrazione di un circo in disarmo -, poco incisivo, a tratti piatto, altre persino vecchio. C'è lo spettacolo, la rivincita, il desiderio di essere, ovunque, famiglia: ma anche il messaggio animalista sembra un po' appiccicato, tardivo. Quasi come se il regista de <La sposa cadavere> fosse finito sul treno giusto: ma avesse sbagliato fermata.