Gli anni piu’ belli di Gabriele Muccino
<Io mi rifiuto di essere pessimista>. Se c'è una cosa che mi piace (e non ce n'è una sola) nel cinema di Gabriele Muccino è la sua incrollabile fiducia nel mondo e nella gente, nonostante tutto, che di tempeste ne ha viste – e tante - pure lui. Ma poi è sempre lì, a inseguire i sogni, quelli grandi: che dentro a quel modo di essere e raccontare c'è sempre una gioia, un buttarsi, un desiderio. Come se quel dinamismo straordinario, quell'urgenza, quella grande energia sentimentale avesse a che fare con la voglia di vivere, di esserci, di ricominciare.
E' un film vorace e struggente, la storia di pochi che poi è la storia di tutti, <Gli anni più belli>: che si accontenterebbe, senza vergognarsi, della leggerezza della gioventù, ma è costretto a fare i conti – come i suoi personaggi – con quell'insoddisfazione che ti logora, con l'amarezza che si specchia nel fallimento, con la delusione dove naufraga il ricordo di chi eravamo e di chi volevamo diventare. Eppure. Eppure le risate, un Capodanno a vedere i botti, una figlia a cui potere insegnare a non fare mai compromessi...
Sulla falsariga di <C'eravamo tanto amati>, che è un film chiave per comprendere questo (che comincia non a caso poco più in là dove finiva il capolavoro di Scola), la storia di quattro amici da sempre, tre ragazzi e una ragazza, adolescenti nei primi '80 poi via via, fino all'oggi, giovani uomini, mogli, amanti, padri.
Il telefono grigio, quello col filo, le porte col vetro smerigliato, il walkman, i lenti da ballare stretti con <Reality> e <se beccamo>: e poi la cocaina, Tangentopoli, l'11 Settembre, madre Teresa, i 5 Stelle. <E tu come stai?>. Che quelli che volevano spaccare il mondo, il mondo li ha spaccati: divisi, allontanati. Ma poi a guardarli bene sono sempre loro: ancora in piedi, ancora insieme.
Muccino attraversa 40 anni di storia di un'Italia smarrita, rimasta un in mezzo al guado (a girare e rigirare senza sapere dove andare per dirla alla Baglioni), realizzando un film sul tempo che passa dove, tra precari per sempre e idealisti pentiti, il privato prevale sul pubblico, l'affetto sull'effetto. E' roba nostra, anche se non mancano gli stereotipi e l'escamotage dei protagonisti che si rivolgono al pubblico è controproducente (e fastidioso), tanto che il regista da un certo punto in avanti decide più prudentemente di abbandonarlo. Ma i ragazzini sono scelti benissimo, Emma funziona anche da attrice e il quartetto di interpreti principali (Favino, Santamaria, Rossi Stuart e la Ramazzotti), perfettamente a proprio agio l'uno con gli altri, ci mette grande intensità e partecipazione a dare forma a una generazione spaesata che si muove tra le discese (ardite) e le risalite di un destino che riserva falli da dietro e colpi di tacco. Un film sincero, onesto (anche nelle note autobiografiche) a cui se devi perdonare qualcosa lo fai volentieri: forse perché per una sera nemmeno a te va di essere pessimista.