Genitori vs Influencer: se il cinema arranca dietro la realtà
Fa sempre un po' quell'impressione lì, il cinema italiano, quello medio intendo, pensato per un pubblico da larghe intese ma con l'ambizione anche di dire qualcosa sul mondo: sta sempre due passi indietro, corre i 100 metri con un armadio sulle spalle, arriva, con una bottiglia comprata al supermercato, a festa già finita. E sì, fotografa la realtà con lo smartphone: ma poi si ritrova in mano una polaroid ingiallita. Sempre un po' in ritardo, come se il presente fosse un autobus che ti tocca guardare partire perché non sei riuscito a salirci. Che poi è questione di tempi, ma anche di contenuti: prendi ad esempio «Genitori vs Influencer» (che già ti girano dal titolo, bello no) che declina lo scontro generazionale (e rapporti e litigi vecchi come il mondo) con le mode e le ossessioni dell'oggi mettendo a confronto un padre boomer (Fabio Volo) che non capisce tik tok e la figlia (Ginevra Francesconi) attaccata h24 al telefonino, lui che si entusiasma per il profumo della carta di una prima edizione del '62 e lei che sogna di campare con il web, perché in fondo «che male c'è a fare la bella vita?». Si finge di volere raccontare la realtà al tempo delle app e della società fluida, là dove nessun uomo è un'isola ma tutti sono un brand e le guerre si combattono a suon di visualizzazioni: ma in verità la pretesa sociologica assomiglia alla giustificazione per entrare a scuola un'ora dopo, è poco più di un pretesto nell'economia di una commedia che non sposta mai la bilancia, che non fa (ma forse questo era pretendere troppo) la differenza e proprio come capita ai suoi personaggi perde il contatto con il mondo che davvero c'è là fuori. L'idea di partenza evapora in mezz'ora e poi è dura stare a galla tra ribaltamenti dei ruoli e commedia sentimentale dove gli opposti (chi l'avrebbe mai detto?) si attraggono: tutto o quasi (dai pipponi dei padri-accollo all'inevitabile reprimenda del cyber bullismo) è prevedibile e anche il coro di pur simpatici comprimari fa un po' macchietta, un buon vicinato che sembra uscito da qualche fiction Rai. Non va insomma molto oltre lo stereotipo, Michela Andreozzi, qui al terzo film da regista, pure sorretta dalla colonna sonora di Pacifico e da una Giulia De Lellis, autoironica a sufficienza, da cui gli uomini vogliono sempre la stessa cosa: i follower. Tanto che alla fine ti chiedi se non abbia ragione quel preside che sostiene che «il cinema è morto». Non ci credo, ma di sicuro non è con questi film che lo aiutiamo a rimettersi in sesto.