Io Capitano, il toccante viaggio di Garrone
A Parma è stato accolto da una standing ovation, mille selfie e un record di spettatori che per l'Astra sarà difficile battere; perché «Io Capitano» ti conquista così: con empatia e umanità.
E' un viaggio in soggettiva che parla attraverso gli occhi dei suoi protagonisti, che - nel controcampo della Storia - ribalta il punto di vista e va alle radici di quel percorso, alle origini di quello strappo, tra il senso di colpa e quel sogno d'adolescenti che si crede avventura e invece è odissea. Eppure, in quella barca carica di anime in mezzo al Mediterraneo, dove al timone c'è un ragazzino che nemmeno sa nuotare, alla fine ci saliamo tutti: insieme alla paura e alla speranza di chi grida «Italie!», stiviamo i nostri pregiudizi, la nostra precarietà, la comprensione incerta per l'altro che credevamo di avere perso.
Ha la forza e lo sguardo incontaminato della giovinezza, «Io Capitano» di Matteo Garrone, i campi lunghi del racconto epico, l'angolazione inedita e la potenza metaforica dell'archetipo: un drammatico romanzo di formazione dal respiro ampio, un itinerario (dentro e fuori di sé) che lascia feriti ma vivi, stremati ma non domi. Si parte ragazzi, si arriva uomini: e se la fine è nota - quella che quotidianamente rimbalza sui telegiornali -, all'autore giustamente non interessa. Ci sarà, altrove, un dopo: ma c'è stato un prima e un durante.
E' su quello che si concentra il film sincero e profondo di Garrone, Leone d'argento per la regia all'ultima Mostra del Cinema: la storia di Seydou e Moussa (i deb Seydou Sarr, premio Mastroianni a Venezia per il miglior attore emergente, e Moustapha Fall, bravissimi), sedicenni senegalesi che partono per l'Europa di nascosto dai genitori: affronteranno prove terribili e saranno anche separati prima di riuscire a salpare dalla Libia, in direzione della Sicilia.
Il deserto, le torture, il terrore: mentre la chitarra elettrica dilata le sue note, il regista di «Dogman» dimostra sguardo largo nell'immergersi nell'attualità senza però trascurare o dimenticare la poesia, camminando senza romperle sulle uova della realtà, ma restando d'altro canto ancorato (uno dei suoi temi cardine, dal «Racconto dei racconti» a «Reality», passando ovviamente per «Pinocchio») alla fiaba.
Ne esce un film toccante, un'epopea cinematografica di caratura internazionale che ha però qualcosa di molto italiano: il cuore.