Prima danza poi pensa: Beckett allo specchio
Mr. Beckett, I suppose. Ma anche, inevitabilmente, dottor Samuel. Un'anima divisa in due, scissa sul ciglio di un interrogativo, finché, là nell'aria, nel cielo terso, vola l'aquilone. Un uomo, prima e oltre il genio, pronto ad affrontare «un viaggio nella sua vergogna»: in dialogo con se stesso, nella fuga da un Nobel che in realtà non ritirò, pur non sottraendosi alle foto di rito...
Un'idea beckettiana per un film che lo è solo in parte, quella che accende il motore di «Prima danza, poi pensa» (titolo splendido, dalla risposta del commediografo a uno studente che gli chiedeva della vita), che mette un grande scrittore che non era fatto per la vittoria davanti allo specchio del suo senso di colpa. Quasi una seduta di autoanalisi, là dove, aspettando Beckett, arriva invece una pellicola che lo racconta, quando - forse - avrebbe dovuto «rappresentarlo».
Ma se la costruzione cronologica in capitoli - cinque: Madre, Lucia, Alfy, Suzanne (e Barbara) e La fine, tutti legati a personaggi che, in un modo o nell'altro, contarono moltissimo nella formazione e nella sopravvivenza del formidabile intellettuale irlandese - alimenta una convenzionalità che poco si addice al protagonista, è indubbio che il film dello specialista in biopic James Marsh (lo stesso della «Teoria del tutto», anche se il suo apice continuo a credere sia «Man on wire») riesca a cogliere, in quelle spalle perennemente ricurve, la personalità complessa dell'alfiere del teatro dell'assurdo, quel vuoto amarissimo difficile da riempire, la vergogna e la vanità del successo, la gioia, sempre sommessa e indecifrabile.
Il padre che sul letto di morte gli diede un buon consiglio («combatti»), l'ammirazione sconfinata per Joyce («preferisco il suo fallimento al successo di chiunque altro»), la moglie indispensabile e tradita: interessante e colto, il film (a cui lo sdoppiato Gabriel Byrne dà il giusto smarrimento) procede senza disturbare per ellissi, mostra, rivela, domanda. Ma alla fine, come al solito, ha ragione Joyce: «Npn è quello che scriviamo, ma come scriviamo». Prima, danza.