Recensione, Festival, 2024, 2025 Filiberto Molossi Recensione, Festival, 2024, 2025 Filiberto Molossi

Emilia Pérez, estro spavaldo: il coraggio di un cinema altro

E' come la bicicletta nel calcio, quando alzi il pallone di tacco dietro la schiena e lo fai passare sopra la testa: ha dentro la bellezza inattesa di quello stupore, di quel gesto non solo simbolico, «Emilia Pérez». E' quel momento lì: un film che passa inosservato quanto un impiegato del catasto che va in ufficio in accappatoio. C'è dell'estro, e sì, del genio pure, nell'affrontare una storia sull'identità (negata, cercata, urlata) con un film che non ne ha nessuna o meglio moltissime, tutte insieme: melò e gangster movie, musical e cinema politico.

È spavaldo e molto libero l'ultimo lavoro che il grande Jacques AudiardTutti i battiti del mio cuore», «Il profeta», «Un sapore di ruggine e ossa») ha girato andando alla ricerca di un cinema «altro», svincolato dai generi «ufficiali», «ibrido», rischioso, dove i protagonisti - come sempre nei suoi film - sono in costante, perenne, complesssa, evoluzione.

Vincitore di 4 Golden Globes (tra cui quello per il miglior film nella sezione Commedia e Musical) e di 5 Efa (gli Oscar europei), premio alle attrici e alla giuria a Cannes, candidato a 13 Oscar, osannato dai critici di mezzo mondo, «Emilia Pérez» è un triplo tuffo all'indietro con doppio avvitamento: un musical su uno spietato criminale che decide di diventare quello che si è sempre sentito: una donna...

Bizzarro ma coraggioso, originale e inaspettato, il film, per quanto improbabile, fa però del sentimento coreografia: canzoni e numeri di danza sono pertinenti oltre che realizzati benissimo (le canzoni sono della cantautrice Camille, già voce dei Nouvelle Vague) e anche il melodramma, sposandosi con le tematiche transgender, sembra assumere, così come il boss, una nuova identità.

Forte di un cast assolutamente «sul pezzo» (la migliore è Zoe Saldana, ma ovviamente i riflettori sono puntati su Karla Sofia Gascón, che potrebbe diventare la prima attrice trans a vincere un Oscar), con «Emilia Pérez» Audiard si interroga sulla redenzione, sul riscatto dell'amore e su un passato che (anche perché non possiamo fare a meno di andarlo a cercare) torna sempre, realizzando una pellicola, intensa e non ordinaria, sulla natura dell'uomo, dell'individuo. E su quella del lupo.

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L'orchestra stonata, se la musica rende fratelli

L'orchestra (nonostante quello che dice il titolo) non è affatto stonata, la banda solo un po', ma il film, in compenso, è intonatissimo: perché se non c'è la bacchetta, poco importa, si può dirigere anche con un mestolo. E seduti al piano è un attimo che Verdi diventi boogie-woogie. Prende il la dalla marcia trionfale dell'Aida per approdare, passato attraverso il jazz e Aznavour, nel crescendo irresistibile del Bolero, «L'orchestra stonata», il film che i francesi sanno fare e noi no: cinema medio ma mai mediocre, popolare e schietto, colto ma senza spocchia, serio quando serve ma non serioso, che va subito al punto ma non è esente da sorprese. E arrampicandosi sulle righe dritte (che al massimo è la vita che va storta) di un pentagramma arriva ovunque: anche, pensa un po', al cuore.

Premio del pubblico al Parma Film Festival (quando ricevette un'unanimità di consensi) e a San Sebastian, quella di Emmanuel Courcol (regista di «Un triomphe», il film che ispirò «Grazie ragazzi» di Milani) è una dramedy ispirata che conosce l'invisibile partitura dei sentimenti, un film pieno di speranza anche quando non ce ne è più. La storia di Thibaut, acclamato direttore d'orchestra che malato di leucemia, ha bisogno di un immediato trapianto di midollo osseo; scoprirà così di essere stato adottato e che l'unico che può aiutarlo è un fratello di cui non sospettava l'esistenza: Jimmy, inserviente nella mensa di una fabbrica che sta per chiudere a Walincourt, vicino a Lilla. E componente (dall'orecchio assoluto...) della banda sgarrupata di quella depressa cittadina di minatori...

Tra le sliding doors, anche amare, dell'esistenza, nel dilemma irrisolvibile di chi ha avuto tanto e chi (troppo) poco, Courcol fa risuonare il potere salvifico della musica, che affratella e rende comunità, famiglia, girando un bel film di pancia sulla scoperta dell'altro. Lo sguardo è pulito, il tono ibrido, l'umanità contagiosa: si ride di quella banda scalcinata (c'è quello sordo, quell'altro che non legge lo spartito perché va orecchio, quello che ha sempre da dire...), sorprendendosi commossi per i legami recisi e riallacciati, per l'empatia, per la sorte dei personaggi. In un'alternanza di emozioni che già di per sé è sinfonia anche quella. E se la trama a tratti è prevedibile, il crescendo finale è la cartina di tornasole di un cinema che ha il coraggio di non adagiarsi sulle comodità delle soluzioni più facili.

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La stanza accanto: Almodovar, dolor y gloria

Nevica, fuori dalla finestra. Cade la neve sui vivi e sui morti, come in «Gente di Dublino» di Joyce, su un mondo che finge di non sapere che è condannato, sulla piscina che non hai mai usato, sulle sdraio dove parlavamo, sui libri che abbiamo letto. Su chi ha scelto come uscire di scena e su chi, semplicemente, lotta ogni giorno per sopravvivere.

Nevica nel nuovo, toccante, intimo, bellissimo film di Pedro Almodóvar che con «La stanza accanto», Leone d'oro a Venezia, gira con straordinaria eleganza (e non parlo solo delle inquadrature, di quei primissimi piani che da soli riempiono lo schermo - e il cuore -, ma anche dei dettagli della scenografia, dove ogni oggetto di design è scelto meticolosamente) un passo d'addio in cui il grande regista spagnolo, con più dolore che gloria, si confronta con la malattia, l'umanissima paura della solitudine, la morte. Che è quella, inevitabile, dell'individuo, ma anche di un mondo «disumano» che abbiamo scelto di non salvare.

Una famosa giornalista, corrispondente nelle zone di guerra, ha un tumore: quando capisce che tutto è perduto chiede a un'amica scrittrice di accompagnarla nell'ultimo viaggio, di stare nella stanza accanto quando deciderà di farla finita...

Partito dalla Rizzoli di New York, la libreria resa famosa anche da «Innamorarsi», il primo film in lingua inglese di Almodóvar (quattro candidature agli Efa, gli Oscar europei) va oltre l'eutanasia e affronta senza alcuna retorica temi ugualmente scottanti come il cambiamento climatico, la woke culture, gli effetti della guerra, l'apatia post pandemica, i danni del neoliberismo e quelli dell'estrema destra.

Ne esce una pellicola commovente a favore della dignità e del libero arbitrio che sembra sempre sul punto di trasformarsi in un thriller dell'anima, ma che in realtà è soprattutto un film sul rapporto con l'altro (su cosa ci aspettiamo, su come lo «usiamo») e sul comprendersi, anche quando è più difficile: un gioiello che le interpretazioni delle bravissime Tilda Swinton e Julianne Moore (entrambe da Oscar, con mia leggera preferenza per la prima) rendono prezioso e luminosissimo.

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Le déluge, prima della fine: così muore un'epoca

«Ma la maledizione è anche di quelli che hanno guardato l'agnello negli occhi».

Nel campo lungo della Storia, in un limbo di atroce stupore dove non resta che attendere che sia troppo tardi, la fine di un'epoca e di un (o «del»?) mondo che si consuma al lume di una Marsigliese stonata, bruciando le illusioni dell'ultima recita, prima che, oltre alle teste, cadano anche le maschere.

È un film amaro e coraggioso, più metafisico che storico, quello di Gianluca Jodice che, camminando come nel precedente «Il cattivo poeta» sul filo sottile dell'ambiguità, racconta in chiave contemporanea la morte dell'ancien régime, osservandone l'agonia dal punto di vista della corona, della monarchia, non tanto per il gusto di ribaltare l'evidenza, ma piuttosto per cogliere con originalità, nella progressiva e implacabile spoliazione del «divino», la malinconia dei vincitori, nella concezione edipica di una rivoluzione che, spalancando con violenza la porta dell'era moderna, si ritrova a uccidere il proprio dio/padre.

Diviso in 3 capitoli- Gli dei. Gli uomini e I morti -, narrati con altrettanti codici cinematografici in un percorso che progressivamente porta dalla luce al buio, «Le déluge» accompagna al patibolo il re di Francia, gettando un occhio non compromesso sul breve tempo trascorso dai sovrani deposti nella loro ultima prigione: non quindi solo - come recita il sottotitolo fuorviante - gli ultimi giorni di Maria Antonietta, ma anche quelli del consorte Luigi XVI, re fragile e incredulo costretto in un ruolo troppo grande per lui.

Forte di due interpreti perfetti per misura (Guillaume Canet e Mélanie Laurent), star del cinema transalpino, Jodice gioca in trasferta, su un terreno oltretutto minato, ma nonostante la caratterizzazione a tratti sin troppo truce dei carcerieri, esce vincitore nel cogliere l'umanità di quella caduta, in un finale di partita illuminato con saggezza (ma non è una novità) da Daniele Ciprì e sorretto dalle note dell'ostinato e bellissimo commento musicale di Fabio Massimo Capogrosso. Mentre i titoli di coda scorrono non banalmente al contrario: come ghigliottine che separano per sempre il prima dal dopo.

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Giurato numero 2, verità e giustizia secondo Clint Eastwood

La sposa è bendata, la giustizia pure: guardiamo, ma senza vedere. Eh già, proprio così: «avere i paraocchi può essere controproducente». E nessuno lo sa meglio di lui, che a 94 anni compiuti gli importa poco assai che il postino suoni una o due volte: tanto, può sempre bussare...

In un mondo dove è ogni giorno più difficile dire (e soprattutto fare) cosa è giusto, Clint Eastwood chiude in una stanza un Paese in stallo, diviso e ingannato, consapevole come non mai che il percorso verso la redenzione è tortuoso, tormentato, accidentato. E gira con «Giurato numero 2» un film teso, asciutto, amaro - e implacabile - sulla fragilità di una verità di cui ci appropriamo indebitamente truccandola a nostro piacere (e convenienza), mai nitida, mai ferma né definitiva: e della quale, anche quando - raramente - oggettiva, accertata, il sistema (giudiziario, politico, legislativo) fatica a essere all'altezza.

C'è il «ti draso» della tragedia greca, la pietra angolare di tutte le storie della civiltà occidentale, nella parabola di Justin Kemp (Nicholas Hoult, ma la migliore in campo è la procuratrice Toni Collette), passato da alcolista e ora marito responsabile con figlio in arrivo; un giorno viene chiamato a fare parte di una giuria popolare che deve decidere la sorte di un uomo accusato di avere ucciso la propria ragazza. Ma ben presto si rende conto che l'imputato potrebbe essere innocente e che il colpevole di quella morte, accidentalmente (a causa di un incidente stradale), potrebbe essere un altro: lui stesso...

Preso spunto da una situazione limite, Eastwood fa incontrare «La parola ai giurati», il capolavoro-archetipo di Lumet, con il legal thriller, rivitalizzando il buon vecchio cinema classico figlio del dubbio. E del dilemma. A qualcuno potrebbe sembrare a prima vista un film minore, «regular», ma non fatevi ingannare: Clint ci prende per il bavero perché piaccia o no quel protagonista assomiglia a noi, alle nostre debolezze e colpe di ordinary people, ai nostri doveri, alle nostre paure e responsabilità. Perché no, nemmeno stavolta è un mondo perfetto. E non è un caso che la macchina da presa prediliga inquadrature e soggettive dal basso verso l'alto: perché per quanto ci sentiamo giudicanti saremo sempre e solo giudicati.

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