Recensione, 2022 Filiberto Molossi Recensione, 2022 Filiberto Molossi

Assassinio sul Nilo: Branagh è un Poirot che ha paura d'amare

«L'amore fallisce». Poirot invece no. E nemmeno Kenneth Branagh se la cava male: fresco di 3 nomination all'Oscar (produttore, regista e sceneggiatore) per l'autobiografico e intimista «Belfast» (che in tutto ne ha raccolte 7) torna ora nei panni (e soprattutto nei baffi) del detective più famoso del mondo: rispolverando nuovamente, sceso vincitore dall'Orient Express (oltre 350 milioni di dollari incassati nei cinque continenti), la libreria dei gialli di Agatha Christie con una versione sfarzosa ed extra lusso - nonché elegante e vendicativa - di «Assassinio sul Nilo», intrigo avido spavaldamente vintage e romantico. Certo, si potrebbe (e si dovrebbe) obiettare che prima che ci scappi il morto - annunciato ampiamente sin dal titolo - passa un'ora tutta e che il meccanismo, per quanto oliato, ci metta il suo per mettersi davvero in moto; ma Branagh d'altra parte affronta anche un film fondamentalmente commerciale come questo con la calligrafia bella e tonda dell'autore, sin dal doppio prologo - uno in bianco e nero, durante la prima guerra mondiale (che svela la ragione dei baffoni del protagonista), l'altro, al contrario, caldissimo e sensuale, acceso nel colore -, passando per i continui movimenti circolari (e accerchianti), la confezione di gran classe (specie quando non esagera col digitale), le domande che incalzano risposte che già conoscono. Invitato un super cast (con lui, tra gli altri, la wonder woman Gal Gadot, il discusso Armie Hammer e Annette Bening) alle nozze di una magnifica ereditiera con un bellimbusto squattrinato (coppia del giorno nel mirino, nemmeno troppo metaforicamente, della ex di lui), Branagh parte per una crociera su un Nilo che pare (indovinata l'idea del sottofondo blues) il Mississippi, tra atmosfere esotiche, riprese ampie e segreti sparsi. II treno del primo film è ora diventata una nave: ancora un non luogo, ancora un mezzo di trasporto (o meglio una trappola per topi) da cui non si può scendere né scappare. Ancora, soprattutto, teatro: la comfort zone del regista nordirlandese. Che più che nell'intrigo ben costruito, nel fascino minaccioso della passione e della ricchezza gioca le sue carte migliori quando guarda nel fondo del cuore di Poirot, accarezzandone le fragilità, dando forma alla solitudine di un uomo che ha paura di amare. E che sa che prima o poi, se non vorrà restare per sempre solamente l'invincibile ma compatito arbitro delle vite altrui, dovrà accettare di mostrare al mondo le sue cicatrici.

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Le cose che non ti ho detto: così muore un matrimonio

«È un omicidio, sta uccidendo un matrimonio: anche se non c'è sangue, è sempre un omicidio».

Tazze di tè, pianti, scogliere, accordi economici, brutti risvegli: e tutti quegli anni trascorsi sul treno sbagliato, quando ti accorgi che hai già superato la stazione della felicità e quello che hai davanti è solo un binario morto. Che qualcuno indietro, senza mai voltarti, forse lo dovrai pur lasciare: i più deboli forse, a congelare nell'inverno dei tuoi sentimenti. Guarda alla storia dei suoi genitori, che si separarono in tarda età, portando sullo schermo la sua pièce «Retreat from Moscow» - e l'impostazione teatrale, evidente, si rivela spesso una zavorra -, William Nicholson, lo sceneggiatore de «Il gladiatore», che con «Le cose che non ti ho detto» (pessimo il titolo italiano che ricorda, volutamente e pericolosamente, «Le parole che non ti ho detto») gira un malinconico melodramma a tre voci - marito, moglie e figlio -, parte di un meccanismo usurato e fatalmente rotto, pezzi unici costretti a scoprirsi estranei agli altri quando non a se stessi. Scene da un matrimonio al capolinea: Edward, un professore di Storia, decide di lasciare la moglie dopo 29 anni di matrimonio. Nonostante i frequenti litigi, per lei è un vero choc... Film sensibile e letterario, ma un po' pretenzioso e artefatto nella scrittura - se è curioso il sottotesto della ritirata di Russia, frasi come «Dimmi qualcosa di vero!» amplificano la sensazione di «costruito» -, «Le cose che non ti ho detto» risulta piuttosto inerte, un dramma familiare dove nessuno dei personaggi, nonostante una certa verità, un disagio autentico e complesso, riesce davvero farsi amare da chi guarda. E così, come il personaggio del marito, il film risulta freddo, spesso noioso, tra panoramiche paesaggistiche con tanto di musica invadente e rese dei conti in anonimi soggiorni: il cast è prezioso, ma né Bill NighyAnnette Bening, che di mestiere ne hanno da vendere, aggiungono quelle sfumature dove intravedere un fallimento, una sofferenza, una resa. Tanto che viene una gran voglia - se proprio l'amore deve finire - di rivedere «Marriage story», quello sì film illuminante e centratissimo su una coppia che non riesce più a esserlo.

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