2022, Recensione Filiberto Molossi 2022, Recensione Filiberto Molossi

Tornatore racconta Morricone: il genio che ha scritto la colonna sonora della nostra vita

Ha ragione (anche stavolta, verrebbe da dire) Bernardo Bertolucci: «Non ho mai visto un fenomeno come lui». Già: lui che sognava di fare il medico ma il padre voleva suonasse la tromba, lui che la musica di «Se telefonando» gli è venuta in mente mentre andava a pagare la bolletta del gas, lui che un giorno chiama un amico (Alessandroni) e gli dice «vieni a farti sta fischiatina»: era «Per un pugno di dollari». Sì, proprio lui: che giocava (e vinceva...) a scacchi con Malick, ha detto no (a malincuore) a Kubrick e ad «Arancia meccanica», ma ha pure inventato il formidabile «A A» iniziale di una hit balneare (e immortale) come «Abbronzatissima». E adesso, per favore, tutti in piedi: standing ovation per il maestro Morricone. «La grande eccezione a tutte le regole» (parola di Nicola Piovani), il cui genio travolgente ma umanissimo rivive ora nell'entusiasmante documentario-tributo di Giuseppe Tornatore. Che dentro a «Ennio» mette la storia (e che storia!) del cinema, ma anche la confessione a cuore aperto e groppo in gola di un uomo che, fondamentalmente, capiva un film meglio e prima del regista che lo girava. Montato benissimo, con senso orchestrale (e ritmo musicale), sin dal prologo, assai efficace, senza note ma scandito solo dal tic tac del metronomo, quello di Tornatore è l'omaggio sentito, partecipe e rivelatore all'uomo che, provocando uno choc culturale, ha riscritto il vocabolario della musica, ma che prima dell'approvazione del regista cercava sempre quella della moglie. Dagli arrangiamenti per il Quartetto Cetra a quelli per «Sapore di sale» e «In ginocchio da te», dal verso del coyote per l'amico Leone al tema di «Novecento» - più verdiano di Verdi - scritto al buio, dalle notti passate a suonare con il padre nei locali per due soldi alla colonna sonora spartiacque di «Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto»: un flusso continuo di ricordi che Tornatore tesse in una ragnatela sentimentale dove le voci dei più grandi (Bertolucci, Eastwood, Tarantino, Springsteen e molti altri), raccolte con pazienza certosina in questi anni, si fondono con quella del maestro scomparso nel 2020. Protagonista e coro di un'opera che non nasconde la delusione per l'Oscar assurdamente negato a «Mission» né il complesso di inferiorità di Morricone verso i musicisti «puri» e accademici che lo snobbarono per decenni facendolo sentire moralmente «colpevole». Ma che racconta anche il riscatto di un compositore senza uguali, capace di fondere insieme la prosa e la poesia, sperimentale e insieme logico, istintivo e preparatissimo: lo stesso che, in un documentario che a tratti sa essere struggente come le sue colonne sonore, Tarantino oggi accosta a Mozart e a Bach. Il paragone a freddo, forse, vi sembrerà esagerato: ma, dopo avere visto «Ennio», di certo non blasfemo.

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Protagonisti, 2022 Filiberto Molossi Protagonisti, 2022 Filiberto Molossi

In memoria di Luigi Lagrasta, l'uomo che amava il cinema

Non ha mollato mai un secondo. Nemmeno per un attimo. Sempre sul pezzo, sempre ritto sulla barricata. Anche in ospedale, dove era stato ricoverato per alcuni giorni nelle scorse settimane: il cuore era ballerino, ma non era questo a preoccuparlo. Piuttosto, anche lì, tra un controllo e l'altro, pensava alle future rassegne, ai film in lingua originale (che era stato tra i primi in Italia a «sdoganare»), a scovare qualche pellicola per tenere duro anche adesso, soprattutto adesso, che Covid e quarantene svuotano le sale. Ho visto piangere gente che non piange mai: ma per Luigi sì, per Luigi, accidenti, sì. L'ultima volta che ci siamo scritti mi ha ringraziato per una recensione che avevo appena pubblicato: mi ha detto, «ottima medicina». Avrei voluto lo fosse davvero, che bastasse così poco. E invece no. Invece sabato mattina il cinema ha perso Luigi Lagrasta, 73 anni, il presidente - e l'anima - del cineclub d'Azeglio: la vecchia sala parrocchiale, praticamente abbandonata, che quasi 50 anni fa, con alcuni amici, aveva riportato alla vita. Trasformandola in uno dei principali poli e presidi culturali della città, un vero faro in un Oltretorrente che aveva bisogno di luce. Un passato in Barilla, a cui rimase fortemente legato, e, da sempre, quella magnifica ossessione per il grande schermo: «colpa» degli ingressi omaggio che regalavano a suo padre. Lui i suoi tre fratelli si dividevano a coppie: andavano in due cinema diversi e poi si scambiavano le tessere. Per vedere due film al giorno. Chi lo conosce lo sa: al cinema ha dato tutto. Tempo, passione, forse anche qualche attacco di bile. E pazienza se un brutto giorno la pandemia ha fatto chiudere le sale, che nemmeno la guerra c'era riuscita: «Dobbiamo combattere, dobbiamo resistere», diceva. Lui lo ha fatto sempre, tutta la vita: perché per questo gentiluomo cortese, signore d'altri tempi dall'ironia affilata e dai modi garbati, grande esperto d'arte e amico degli animali, il cinema non era un hobby, ma una missione. Era tra quelli (e noi con lui) che credeva ancora al rito collettivo della sala, alla proiezione come elemento aggregante, dal valore non solo culturale ma sociale. Altro che lo streaming, altro che le piattaforme con i film da vedere mentre si messaggia e il telecomando per schiacciare il tasto «pausa» per andare in bagno. Una delle ultime volte che ho visto il D'Azeglio strapieno è stato lo scorso novembre, quando Alessandro Borghi ha ritirato il Premio Schiaretti: una sua invenzione, un riconoscimento, dedicato a un nostro indimenticato collega, attraverso il quale Lagrasta era riuscito a portare a Parma alcuni tra i più amati protagonisti del nuovo cinema italiano. Per Borghi, un vero evento, si erano prenotati in tantissimi: non ci sarebbe stato nulla di male, considerato le difficoltà odierne delle sale a causa del Covid, a fare pagare un biglietto. Ma Luigi ha detto no: «E' un regalo alla città». E di regali alla comunità, Lagrasta ne ha fatti tanti: non solo le serate tirate a lucido del premio Schiaretti, ma anche le molte rassegne dedicate alla Storia del cinema per le quali il D'Azeglio aveva ottenuto per tre anni consecutivi il primo premio dal ministero dei Beni culturali. Luigi chiedeva finanziamenti a istituzioni e aziende del territorio pur di potere fare entrare gratis gli spettatori. La cultura come servizio pubblico. Ricordo una proiezione di «Arancia meccanica»: una folla. In tanti restarono fuori. Dentro, in sala, il più vecchio avrà avuto 25 anni: tutti ragazzi. E Luigi, un po' commosso. Ma le iniziative che fanno onore a questo stacanovista del grande schermo, sono molteplici: dai film per gli «ex ragazzi» (gli over 55) al cineclub per i bambini. Rassegne dal forte valore sociale a cui Luigi teneva tantissimo. Uno dei suoi fiori all'occhiello, come i già citati «original ones», i film in lingua originale, appuntamento irrinunciabile. E poi la lunga attività per l'Acec dell'Emilia Romagna, l'associazione cattolica degli esercenti cinema. Nell'ultimo anno si era occupato anche del cinema Cristallo a Reggio Emilia e del Bellinzona a Bologna. Ma ora la sala è più vuota, la pellicola si strappa, il film ha un brutto finale: sta a noi renderlo migliore. Difendendo a spada tratta quell'idea di cinema per cui Luigi si è sempre battuto. E' il miglior modo per ricordarlo.

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Kubrick, l'assoluto e la macchina fotografica nella borsa della spesa

Al figlio del dottore piaceva giocare a scacchi e suonare la batteria: poi, un giorno, suo padre, per il suo tredicesimo compleanno, gli regalò una macchina fotografica, una Graflex. E' il momento che cambia tutto, perché se un segreto c'è, è proprio lì: dentro uno scatto di alcuni (non molti) anni dopo. Il giovane Stanley, che nasconde la Graflex (e le macchine che seguiranno) nella borsa della spesa per non essere scambiato per un turista o un giornalista, va allo zoo. E si ferma davanti alla gabbia delle scimmie. Ma invece di rivolgere l'obiettivo verso gli animali fotografa la gente che li guarda, immortala le espressioni di quello strano pubblico davanti (o dietro...?) le sbarre. Ribalta cioè completamente la prospettiva del tutto: e si immedesima nel punto di vista della scimmia, che non è più oggetto dell'inquadratura ma soggetto <pensante>, fondamento, della stessa. Ecco, per quanto noi pensiamo di vederli e ci illudiamo di poterli analizzare, persino sezionare, i film di Kubrick ci guarderanno sempre. Forse giudicandoci ancora prima che noi facciamo la stessa cosa con loro.

Anche perché i capolavori di questo che, senza timore di essere smentiti, possiamo definire uno dei più grandi (e più influenti) geni del Novecento vanno al di là dello spettacolo cinematografico in quanto tale così come anche dell'opera d'arte: ma sono - tutti, nessuno escluso - esperienze, saggi visivi (e visionari), riflessioni (filosofiche, sociali, politiche) sulla natura umana. Anche quando a essere <umano> è un computer che scivola nell'oblio cantando (<ho imparato una filastrocca, la volete sentire?>) <giro girotondo>...

Di lui si è detto tutto: che era maniacale, perfezionista fino all'estremo, cortese eppure <impossibile>. Ken Adam, il leggendario scenografo de <Il dottor Stranamore> e <Barry Lindon> (ma anche di alcuni dei migliori 007), quando lavorava con Kubrick andava avanti a tranquillanti mentre Arthur C. Clarke, l'autore di <2001 Odissea nello spazio>, confessò che dopo ogni seduta di sceneggiatura con il regista newyorchese doveva andare a stendersi perché gli girava non poco la testa... Ma è lo stesso uomo che Orson Wells definirà, in tempi non sospetti, <un gigante>. Di fatto Kubrick è - per molti versi - ancora un mistero: imperscrutabile e affascinante quanto il monolite di <2001>. Ora, ad avvicinarsi, col dovuto rispetto che si deve al mito, a quell'universo multiforme e incandescente è il cinema D'Azeglio che da giovedì ripropone con la rassegna (a ingresso gratuito) <Visioni dell'assoluto> 11 dei suoi 13 film (tutti tranne i primi due), di cui sei in versione originale sottotitolata. Un'occasione per riscoprire la potenza e l'attualità del cinema di Kubrick sul grande schermo, là dove è stato concepito per stare.

L'autore americano, che non appena ne avrà l'occasione scapperà a gambe levate da Hollywood per trasferirsi in una meno invadente Inghilterra, fonde le sue passioni adolescenziali nella ragione della sua vita, il cinema: dagli scacchi (a cui continua a giocare sui set tra una scena e l'altra dei suoi film) prende il rigore, dal jazz il senso del ritmo, dalla fotografia un gusto, già maturo e innovativo, dell'inquadratura. Si tiene lontano dal sistema, vive con la famiglia in un sereno isolamento, veste <come un venditore di palloncini> (la definizione è della terza moglie): non ama i viaggi, le sorprese, le perdite di tempo. E' un meraviglioso autodidatta: quello che sa non glielo ha insegnato nessuno. Non ha maestri né allievi, ma ama anche il cinema degli altri. Quando nel '63 lo invitano a stilare la sua personale top ten dei migliori film di tutti i tempi, non ha dubbi: e al primo posto mette <I vitelloni> di Fellini.

Inizialmente lavora sui generi, che reinventa (anticipando scenari e filoni futuri), ma da <Lolita> in poi il carattere di unicità del suo cinema si fa sempre più marcato e inclassificabile. Il suo rimanere fuori dal coro, l'insopprimibile desiderio di autonomia (e controllo assoluto sulla creazione di un film) lo rende mal sopportato dall'establishment che fatica anche a perdonargli il suo enorme successo: così, seppure venga candidato 4 volte all'Oscar non lo vince (proprio come Chaplin, Hitchcock e molti altri grandissimi) mai. Poco male: il suo talento non ha bisogno di essere confermato da premi o riconoscimenti. Kubrick lo sa e nel '99, poco prima di morire, chiude il cerchio: seguendo un nervoso e preoccupato Tom Cruise in <Eyes wide shut> lo fa passare davanti a un'edicola. Identica a quella della prima foto che gli venne pubblicata. E' il '45, Stanley ha appena 17 anni: mentre sta andando a scuola fotografa un giornalaio affranto circondato dai titoli dei quotidiani che annunciano la morte di Roosevelt. Vende lo scatto a <Look> per 25 dollari, che lo assume. Solo molto più tardi racconterà che per convincere l'edicolante a tiare fuori un'espressione triste impiegò tutta la sua pazienza. Istruendolo come fosse un attore. In fondo, stava già facendo cinema. E non sarò certo io a dire che l'uomo che sapeva tutto non ne fosse già consapevole.

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