2016, Festival, Recensione Filiberto Molossi 2016, Festival, Recensione Filiberto Molossi

Quei segreti di famiglia più forti delle bombe

Comincia come un mistery ma è un dramma familiare, dove si agita il fantasma dell'assenza e le emozioni restano imprigionate in un tempo sospeso, come istanti infiniti impressi – per sempre - in una foto, il primo film americano del 41enne norvegese di belle speranze Joachim Trier, <Segreti di famiglia>, che, dimenticato per lungo tempo in cantina, arriva ora sullo schermo dal Festival di Cannes dell'anno scorso.

Problematica, densa, la pellicola, raccontata da diversi punti di vista, attraversa, senza nasconderne le cicatrici (visibili e non), complesse dinamiche familiari dove conflitti in atto o pronti ad esplodere definiscono anche le pieghe del desiderio, della mancanza, della rinuncia.

C'è qualche reminiscenza del migliore Egoyan (quello di un po' di anni fa) nella storia - attraversata da molteplici flashback - di un padre (Gabriel Byrne) e dei suoi figli, uno dei quali ancora non ha superato la feroce realtà della tragica morte della madre (Isabelle Huppert), fotoreporter di guerra rimasta uccisa in un incidente stradale e ora celebrata in una grande mostra: un'elaborazione del lutto, quella di Trier (<Reprise>, <Oslo, 31. August>), che lavora ai fianchi il non detto, in una contaminazione stilistica che, tra molte reticenze e falsi movimenti, continua a <scartare> dalla via maestra, confondendo la messa a fuoco dell'onnipresente (anche quando assente) protagonista, moltiplicando i punti di visti nel rifiuto di un vero e proprio (magari più rassicurante) centro.

Film intimo, pieno di vuoti, di silenzi, di ricordi a orologeria, <Segreti di famiglia> (decisamente più bello e significativo però il titolo originale, <Louder than bombs>, più forte delle bombe, identico a quello di un album degli Smiths) non si accontenta della superficie e scava (senza paura di sapere cosa potrebbe trovare) a fondo, anche se alcuni escamotage narrativi suonano un po' già visti e il ricorso alle voci off (per quanto funzionale) risulta a volte troppo insistito e programmaticamente evocativo. Ambizioso (per certi aspetti promette più di quello che mantiene), ambiguo, ma formalmente (ed emotivamente) riuscito, il dramma di Trier – nell'identificazione di una donna da (ri)scoprire - osserva lo specchio rotto dei sentimenti e dei rimorsi, ma supera l'amarezza per tendere alla riconciliazione. Non solo attesa: ma necessaria.

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Filiberto Molossi Filiberto Molossi

Remember: il thriller coi capelli bianchi che ricorda con rabbia

Ricorda con rabbia. E' pensato come il più classico dei revenge movie (i film sulla vendetta), ma - in un mondo di fantasmi dove l'unico vero nemico è l'oblio -, usa il cinema di genere  per riflettere sul dovere e sull'obbligo della memoria, sulla necessità che quello che è stato non svanisca nelle pieghe profonde dei <non so> e dei <non ricordo>.

Sparge il presente di interrogativi etici, senza usare troppo sfumature, ma mettendosi in viaggio su una strada accidentata, costellata da odio e compassione, <Remember> (un titolo che è un imperativo), il film con cui il canadese di origine armena Atom Egoyan riapre la ferita indelebile dell'Olocausto in un percorso (anche interiore) dove non c'è condanna peggiore di quella di vivere nella menzogna. Magari finendo col credere che sia la verità.

Un anziano sopravvissuto ai campi di concentramento, dopo la morte della moglie scappa dalla casa di riposo per realizzare, istigato da un amico, un ultimo <desiderio>: uccidere l'aguzzino nazista che ad Auschwitz sterminò le loro famiglie...

Dopo molte prove appannate, Egoyan, pure restando lontano dalle sottigliezze narrative di film come <Exotica> e <Il dolce domani>, realizza con rigore (partendo là dove cominciava anche <This must be the place> di Sorrentino) un  convenzionale ma teso thriller coi capelli bianchi, che ha la sua maggiore singolarità nell'offrire il ruolo del killer vendicatore a un ottuagenario afflitto da demenza senile, confuso e malandato, con tutti i limiti (e gli ostacoli) a cui l'età lo mette davanti.

Forte di un gran finale a sorpresa, il film si aggira nelle stanze buie dell'imperdonabile, in cui ancora sopravvive l'orrore e si conservano i germi maledetti dell'antisemitismo, lasciando che un monumentale Christopher Plummer (86 anni e non sentirli) si carichi sulle spalle tutto il peso di un passato che, inesorabile, torna.

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