Protagonisti, 2021 Filiberto Molossi Protagonisti, 2021 Filiberto Molossi

Mio padre e quel bambino che giocava nel suo uffiico

Questo articolo l’ho scritto tre anni fa: oggi, festa del papà, mi sembra giusto riproporlo qui

La prima volta che sono entrato alla Gazzetta ricordo solo sorrisi, un clima molto disteso. C'era persino un bambino che giocava per terra nell'ufficio del direttore. Quel bambino ero io. Dicono: «Scrivi quello che vuoi». Che poi, grazie al cielo, è quello che ho sempre fatto. Anche se questa volta è un po' più complicato: perché questo giornale per me non potrà mai essere solo un posto di lavoro, il luogo (e le pagine) dove ho trascorso la maggior parte della mia vita. Ma anche, anzi soprattutto, un intreccio di affetti, ideali, sentimenti: un affare di famiglia, un articolo da battere su tasti color nostalgia, un ponte tra l'edizione del giorno prima e quella del giorno dopo. Mio padre, il direttore, mi portava per mano anche al cimitero: lui, laico, visitava e rendeva grazie ad avi che - tanto quanto me - non aveva mai conosciuto. Suo padre morì quando lui stava per nascere, suo nonno se ne era andato già tempo prima. Eppure entrambi, senza mai conoscerlo, fecero in tempo a contagiarlo: ad attaccargli quella fortunatamente inguaribile malattia che è la passione per la carta stampata, «l'arte scontrosa», i fatti, le notizie, la vita - sì, la vita - mentre succede. Mi perdonerete, ma è una famiglia strana la mia: il bisnonno, Pellegrino, che la Gazzetta addirittura se la comprò, pur di rimanerne alla guida rifiutò la direzione di un «piccolo» e onesto giornale della nebbiosa Lombardia: il Corriere della sera. Era quello che avreste definito, in quell'agitato Ottocento, un uomo tutto di un pezzo. Non erano tempi, quelli, di richieste di rettifiche o cause in tribunale: le controversie legate al giornale si risolvevano all'alba, a suon di duelli. Per fortuna, Pellegrino oltre che di penna affilatissima era dotato di ottima mira: non perse mai. E diede alla sua famiglia e al suo giornale, un carattere, un timbro. Come quella volta che i carabinieri, una disgraziata sera agli inizi del secolo breve, durante una sparatoria, uccisero per errore suo fratello Filiberto, di cui porto il nome. La vicenda fece clamore e venne da più parti strumentalizzata, usata per biechi fini politici. In un editoriale che non temo a definire leggendario, Pellegrino, pur straziato dal dolore per la morte assurda di suo fratello, difese i carabinieri che lo avevano ucciso. Ecco, se mi chiedete chi siamo, noi non siamo nient'altro che questo: siamo quella cosa lì. Il giro al cimitero finiva sempre nel campo dove riposavano gli ebrei. Non c'era un parente da salutare, ma la tomba di Alessandro Bassani: l'uomo che il primo maggio (data curiosa per un'assunzione) volle mio padre alla Gazzetta di Parma. Con regolare lettera gli riconosceva tre mesi di prova: lui si fermò, facendo la fortuna di questo quotidiano, per 42 anni, 35 dei quali (un record) vissuti da direttore. Alla Villetta, un saluto per Bassani non mancava mai: per mio padre, l'uomo che salutava i tipografi togliendosi il cappello, la riconoscenza aveva un valore. Alla Gazzetta negli ultimi 150 anni hanno lavorato, dirigendola e portandola a grandi successi, mio bisnonno, mio nonno, mio padre e mio fratello: un discreto fardello. A 18 anni non volevo fare il giornalista nemmeno morto: adesso (e non da ora) non vorrei fare nient'altro al mondo. La malattia, alla fine, ha contagiato anche me. Mio padre lo sapeva da sempre, forse già da quel giorno che mi portò a giocare nel suo ufficio. Anche il destino remava in quella direzione: sono finito in un editoriale ancora prima di scriverne uno. Quando sono nato, infatti, mio padre mi ha dedicato uno dei suoi articoli più belli: «Lettera al figlio». Non ho pianto la sera che è morto: ho pianto il mattino dopo, da solo, rileggendo quel pezzo. Che indica una strada, e una direzione: «Sii fermo e caparbio nella tua fede, ma anche benevolo e tollerante verso le convinzioni altrui; sii benigno agli umili e fiero con i potenti; ripudia la violenza come mezzo per risolvere le controversie e credi nella forza mitica e irresistibile della ragione». So che adesso, lui che dal barbiere mi veniva a prendere con la scorta quando a casa nostra telefonavano le Brigate Rosse e a volte faceva tardissimo per amore di quella «vecchia Gazza saltellante», mi rimprovererebbe a sapermi alzato sino alle 3 di notte per finire la recensione di un film o magari un «fondo»: ma sarebbe anche l'unico a capirmi. A capire che la Gazzetta si fa così o non si fa per niente: prendendosela a cuore.

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Io, protestato da Avati: come una medaglia sul campo

Ora che l'incontro c'è stato e le bocce sono ferme, credo che questa storia si possa anche raccontare: sono stato "protestato" da Pupi Avati. Nel senso che avrei dovuto presentare e intervistare io il regista bolognese sabato sera a Parma: ma lui non ha voluto. Pare che l'abbia messa come condizione sine qua non: se c'ero io, (che ero stato chiamato dall'esercente della sala) non veniva lui. La cosa in sè è abbastanza comica: un regista che ha paura di un critico non si sentiva da decenni. Ringrazio pubblicamente Avati per tutta questa considerazione: rischio di montarmi la testa. Perché sì, il "gran rifiuto" del regista bolognese vi assicuro equivale a una medaglia al valore ottenuta sul campo, a un encomio, se non a una laurea con lode. La cosa però ha contorni paradossali. Perché io Avati l'ho presentato innumerevoli volte: tutti incontri (per merito suo, si intende, che è un bravissimo affabulatore)  affollati e andati benissimo. E allora da dove arriva tutto questo astio? Qualcuno dice dalla mia recente  recensione di "Un ragazzo d'oro". Se è così mi permetto di stupirmi: per quanto abbia messo in evidenza certi già di per sè evidentissimi difetti (tipo l'inutilità di Sharon Stone...) sono stato - in Italia (isole comprese) - tra i critici più teneri nel gudicare la sua ultima creatura, dove vi ho trovato anzi anche cose belle. E allora? Qualcun altro sostiene che la ragione è un'altra: Avati si sarebbe legata al dito un'altra recensione (quella sì - pare - parecchio negativa) che ho scritto anni fa e da allora starebbe rimuginando. Ma dici sul serio?  Mah... D'altro canto qualcosa a sto povero cristo gli devo pure avere fatto: anche perché Avati - come Bruto - "è uomo d'onore: e io non parlo, no, per smentire ciò che Bruto disse, ma qui io sono per dire ciò che io so".  E io in questa storia scorgo un'enorme piccolezza. Vuoi vedere che è colpa mia se "Un ragazzo d'oro" è stato un flop clamoroso? Se il primo weekend  è arrivato appena all'ottavo posto nella classifica degli incassi e nella seconda è addirittura uscito dalla top ten? Vuoi vedere che sono così potente? Vuoi scommetere che è colpa mia anche il buco dell'ozono e forse pure  il gol annullato a Turone nell'81? Onestamente, non credo. Ma è andata così.

Questa storia alla fine me ne ha fatta venire in mente un'altra, anche questa in parte illuminante del contesto in cui si muove un critico. E' successo diversi anni fa e non ricordo nemmeno per quale film: ma un esercente - che ora non fa più quel lavoro - mi tolse, oltre che il saluto, la tessera d'ingresso alla sala perché a suo dire con una mia stroncatura gli avevo rovinato la partita a golf. Poco male: io ho continuato ad andare al cinema e lui non è mai entrato nella formazione del Team Europe per la Ryder Cup.

Che poi un fatto analogo accadde anche a mio padre: venne bandito da una sal perché si era permesso di criticare un classico, "Duello al sole". Ci rise su. Io il film l'ho rivisto di recente e sai che ti dico? Avevi ragione tu, papà.

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