Piccoli crimini coniugali: anatomia di una coppia (che scoppia)
I film-scatola, quelli che il cinema lo imprigionano in quattro mura – sempre le stesse -, hanno un fascino sinistro, segreto: all'inizio sembrano respingerti, ma a volte ti trascinano dentro, all'improvviso, nella loro stessa gabbia. Succede, ad esempio, negli ultimi film (belli assai) di Polanski (<Carnage>, soprattutto, ma anche <Venere in pelliccia>), gli stessi a cui forse nemmeno troppo celatamente guarda, senza replicarne gli esiti, l'Alex Infascelli di <Piccoli crimini coniugali>, giallo esistenziale nevrotico e rancoroso che esegue, nel continuo rinfacciarsi ciò che (non) è stato, l'anatomia di una coppia (e di un – tentato – omicidio...), per osservare, più partecipe che inerme, una parabola dove prima c'è passione, poi la famiglia – <alibi supremo> -, e infine solo un infierire su stessi, la paura di invecchiare, quel tenersi per mano per non arrivare da soli al cimitero.
Un gioco al massacro molto letterario, teatrale e <francese> che mette uno di fronte all'altro – come fossero le cavie di un esperimento in una teca a forma di casa – uno scrittore che a causa di una caduta ha perso la memoria e sua moglie. Perché lei è così insofferente? E lui? Davvero non ricorda più niente?
Tratto dall'omonimo bestseller di Eric-Emmanuel Schmitt, poi dallo stesso trasformato in pièce per il palcoscenico, <Piccoli crimini coniugali> è un dramma da camera dove si consuma la recita dei sentimenti, in una ricerca del sé (e dell'amore) perso o solo fintamente smarrito che si traduce in un impervio (e pericoloso) percorso di reciproca (auto) analisi. Una resa dei conti a tutti gli effetti (e cosa altro avrebbe potuto essere?), dove la regia disegna leggera ma da vicino i contorni di quel malessere di cui sono intrisi anche gli oggetti, muovendosi al ritmo delle tensioni che implodono o esplodono, quasi a diventare il terzo, inatteso e invisibile, protagonista del film. Che però rimane freddo (come la curata e attenta fotografia di Catinari), incapace di dare una scossa a un congegno narrativo non particolarmente nuovo, dove anche il risentimento rischia di apparire artificioso. Certo, emergono le interpretazioni di Castellitto e della Buy (insieme anche in <In treatment>, la serie di successo di Sky) che sono sì un po' recitate, ma sofferte, piene di toni, a tratti persino iconoclaste; ma alla fine, a ben vedere, è forse meglio che l'amore resti quello che è: un mistero. O, se preferite, un rischio da correre.