2017, Recensione Filiberto Molossi 2017, Recensione Filiberto Molossi

Che la forza sia con noi: Star Wars-Gli ultimi Jedi

<E' così che vinceremo: non combattendo ciò che odiamo, ma salvando ciò che amiamo>.

Nella ricerca, a volte vana, del proprio posto nel mondo, di una risposta alle domande che risposta non hanno, chi viene dal niente (ed è niente) decide che è tempo di essere qualcosa. E interroga l'immagine riflessa nello specchio, sapendo che non c'è riuscita dove non c'è fallimento (<il più grande maestro>), non c'è luce, fiamma, dove non c'è anche buio, disperazione. Ci vuole coraggio a confrontarsi con l'epica di <Star Wars>, col suo mito che è già mitologia: ci vuole coraggio (e <forza> ovviamente, e follia) anche se è lo stesso <Star Wars> a farlo, a provarci. Un film che guarda a se stesso, confrontandosi col peso (forse ormai insopportabile) della propria leggenda: senza paura di liberarsi delle favole (e dei successi) di un tempo per riaccendere davvero la scintilla, gettare un nuovo seme, dare vita (emblematica l'ultima sequenza) a un'altra generazione di ribelli. A 40 anni tondi tondi dall'originale – un caso sociale, di costume, oltre che cinematografico – l'episodio VIII di <Guerre stellari> non ha paura di gettarsi ancora nella mischia, nella battaglia: consapevole che, nemmeno stavolta, il sacrificio sarà vano.

Mentre il Primo Ordine dà la caccia in ogni angolo della galassia ai pochi ribelli superstiti, Rey cerca di convincere Luke Skywalker a unirsi alla lotta: ma il cavaliere Jedi, che ormai vive isolato da tutto, non sembra sentire ragioni...

Scontri spaziali, inseguimenti vertiginosi, animali fantastici, missioni impossibili: spettacolare, potente, ricco di colpi di scena, <Star Wars: Gli ultimi Jedi> riesce a restare in equilibrio tra le due anime della pellicola, quella più avventurosa spettacolare (venata anche da un'ironia che forse non piacerà ai puristi) e l'altra, più introspettiva, interiore, sulla riscoperta di una fede mai forse davvero smarrita, sull'ostinazione nel cercare una speranza quando non c'è più nemmeno quella. E se non tutto è allineato (la casa di Skywalker che sembra un trullo nemmeno abitasse ad Alberobello, il cattivissimo di digitale e forzata deformità, il farabutto versione Del Toro...), nel necessario commiato dei personaggi iconici (invecchiato e un po' imbolsito, Mark Hamill regge però buona parte del film sulle sue spalle) brillano umanissimi eroi giovani e belli. Il futuro, oltre che in quelle del regista Rian Johnson, è nelle loro mani: le premesse ci indicano che sapranno farne buono uso. E che per quanto la fine non sarà mai tale (il capitolo conclusivo è fissato per il 2019, ma sembra già pronto a ripartire un nuovo ciclo), la saga starà sempre dalla parte giusta: quella dei perseguitati e degli oppressi.

Read More
2017, Recensione Filiberto Molossi 2017, Recensione Filiberto Molossi

Smetto quando voglio: laurea ad honorem alla banda dei cervelloni

Di smettere, in realtà, non sembrano averne una gran voglia: lo vedi subito che si divertono troppo per prendere e mollare. Ma pare andrà così: che questo, il terzo atto, sarà anche l'ultimo. Perché lo sanno pure loro: che è un attimo ripetersi e diventare maniera, imitazione di se stessi, formula stanca (per quanto esatta) di un medesimo risultato. Ma di certo va detto che il dream team targato Sibilia di meriti non ne ha pochi: ad esempio, quello di avere creato un brand, un marchio riconoscibile, riportando linfa e vitalità a un cinema medio altrimenti esangue. Sono l'Ocean's de noantri, la banda del buco dei cervelloni: ma se alla fine il bottino della trilogia supererà tranquillamente i 10 milioni di euro, non si può dire che abbiano derubato o truffato nessuno.

Simpatico ma non troppo zuccherato, <Smetto quando voglio-Ad honorem>, riunita la banda per una mission impossible (salvare la Sapienza da un attentato terroristico...), si esalta nella felice commistione di generi (commedia, prison movie, film d'<evasione>) che in un modo o nell'altro aveva già contraddistinto anche gli altri due capitoli della saga: Sibilia conosce la materia, dimostra una non banale professionalità (come nelle scene spettacolari, sempre ben risolte: vedi quell'inizio niente male, subito nel vivo) e supera l'esame anche stavolta. Non c'è lode, anche perché nel tempo un po' di originalità e freschezza (e qualche risata) è stata lasciata per strada: ma il cast ha sempre una gran bella chimica, lo spirito è goliardico ma (tra rimpasti di governo e fondi per la ricerca che non arrivano mai) non consolatorio, l'entusiasmo sincero. Ma Sibilia ha ragione: la sua università è finita. Se vuole fare il salto deve <smettere> adesso.

Read More
Recensione, 2017, Festival Filiberto Molossi Recensione, 2017, Festival Filiberto Molossi

Moderno, spiazzante, differente: The square fa a pezzi il presente

E' il film più <differente>, originale, cinico, trasversale, moderno e spiazzante che vedrete quest'anno: se è anche il più bello siete in grado di deciderlo da soli. L'opera d'arte complessa, concettuale e (felicemente) destabilizzante di un regista immarcabile: che tra mostre non mostre, gorilla da salotto ed errori a cui non è possibile rimediare, denuncia l'indifferenza patologica della società moderna, colpita a freddo nel calduccio rassicurante del suo quadrato esistenziale, ipocrita santuario di fiducia e altruismo.

E' una grande, sorprendente e dissacrante, riflessione sulla contemporaneità, <The square>, la tragicommedia crebrale con cui lo svedese Ruben Ostlund, a tre anni da quel capolavoro audace e sinistro che era <Forza maggiore>, ha trionfato all'ultimo Festival di Cannes: una provocazione raffinata, implacabile e sempre lucida che mina le nostre già traballanti certezze, facendo esplodere nei mille pezzi di un puzzle fatalmente incompleto le contraddizioni, imbarazzanti e velenose, del presente.

Come nel suo film precedente è una questione di causa ed effetto anche nella parabola personale del  curatore di museo di successo, Christian, a cui un giorno rubano con l'inganno portafoglio e cellulare. Un furto comune, banale, ma che sulla sua vita (e sulle nostre...) avrà conseguenze clamorose.

Attraverso una pungente satira sull'incomprensibile e ostentata vacuità dell'arte contemporanea (davanti a cui ci si sente come Sordi e consorte alla Biennale di Venezia...), Ostlund demolisce, tra senzatetto, quartieri popolari e immondizia, il mito (non solo svedese) del benessere,  mettendo invece in evidenza l'incapacità di venire in aiuto gli uni agli altri e, soprattutto, di comprendere la portata delle proprie azioni. E in quel continuo tirare la corda, in quell'inafferabile sguardo antropologico con cui rompe e scombina le pareti di una realtà che non è più capace di fare quadrato, l'autore, tra alti e bassi narrativi squarciati da momenti potentissimi (la cena di gala <disturbata> dall'uomo scimmia vince per distacco  il premio per la migliore sequenza della stagione...)  racconta molto di noi e della  mancanza di responsabilità di una società borghese per lo più individualista, egoista, decadente.

Là dove l'esistenza è performance, installazione pubblica  la cui routine è mandata in frantumi da grotteschi imprevisti: sconvolto il quotidiano col paradosso, <The square> cerca ostinatamente un punto di rottura. Consapevole che se l'arte è sopravvalutata, anche l'umanità non scherza.

Read More
Recensione, Festival, 2017 Filiberto Molossi Recensione, Festival, 2017 Filiberto Molossi

Borg McEnroe: il tie-break infinito con la vita

Non so voi: ma io quel giorno tifavo Borg. Anche se poi ho letteralmente adorato quel ragazzo insolente coi ricci e la lingua lunga, tanto da desiderare sempre e solo una vita alla McEnroe: tutta attacco, estro e fantasia. Ma quel bambino, nel luglio dell'80, davanti al televisore nella hall dell'albergo delle vacanze stava dalla parte dello svedese. Forse perché quel tennista invincibile, quell'idolo di ghiaccio, sembrava dovesse crollare, sgretolarsi, da un momento all'altro: proprio lì, sul più bello, a un passo dalla leggenda. Non so voi, dicevamo: ma chi l'ha vista quella partita se la ricorda. Perché fu qualcosa di unico, un momento assurdo e <perfetto>: l'Italia-Germania 4-3 del tennis, il Foreman/Alì dei gesti bianchi. Parte da qui, dalla mitica finale di Wimbledon '80 (sì, quella dell'incredibile tie-break finito 18-16, dei sette match point annullati...), <Borg McEnroe>, il film teso e avvincente che il danese Janus Metz Pedersen ha dedicato a una delle più straordinarie e appassionanti rivalità dello sport di ogni tempo. Là dove una partita non è mai solo un partita, ma una questione di vita o di morte, un match infinito coi propri demoni, la guerra perenne contro i (brutti) ricordi di ieri e le (a volte intollerabili) pressioni di oggi: cinque set dove c'è dentro (come sostiene un altro grande, Andre Agassi) un'intera esistenza, solo in miniatura.  Preso a modello <Rush> (che raccontava un altro fantastico duello, quello tra Lauda e Hunt), Metz Pedersen (passato recente da documentarista impegnato) trasforma in un appassionante dramma umano la sfida tra il ragazzo del Nord che si allenava contro la porta del garage e il maleducato monello yankee che ascoltava la musica a palla. Da una parte Bjorn, il mito vivente che avrebbe voluto solo confondersi tra la folla, gentleman dalle umili origini superstizioso e maniacale, gelido solo in apparenza ma in realtà fragile, sempre più in difficoltà a reggere una pressione così enorme; dall'altra John, l'enfant terrible, l'astro nascente che amava il flipper e le discoteche, allergico agli arbitri e ribelle quanto e più dei suoi capelli. Il primo aveva solo un desiderio: essere il migliore del mondo. A costo di tenersi tutto dentro. L'altro, cresciuto col poster dell'avversario alle pareti, sognava solo di batterlo: a rischio di tradire anche un amico. Interamente incentrato sul torneo di Wimbledon del 1980 (e sulla sua finale annunciata), ma squarciato da flashback spesso dolorosi (dove, curiosità, a interpretare il Borg ragazzino è suo figlio Leo), <Borg McEnroe> più che un semplice sport movie (genere di cui conosce e rispetta le regole) è un film potente sull'inferno interiore dell'atleta, sul peso insostenibile della perfezione, sulla profonda solitudine dell'<eroe>, di chi rappresenta tutto ma non vorrebbe rappresentare niente, se non quello che è realmente. Più spostato, sbilanciato, verso Borg (la cui personalità complessa, evidentemente, affascinava maggiormente il regista di quella di Mac, che non ha amato la pellicola), il film (fresco vincitore della Festa di Roma) mette in campo due gladiatori armati di racchetta (ottime e aderenti le interpretazioni di Shia La Beouf e, soprattutto, del meno noto Sverrir Gudnason, grande sorpresa nel ruolo del campione svedese) per celebrare in modo emozionante (belle e ricostruite con attenzione le sequenze della <partita del secolo>) lo scontro epico tra due filosofie in apparenza opposte, ma in realtà molto più vicine, complementari e complici di quello che potevano sembrare a prima vista. Tanto che alla fine, punto dopo punto, non conta molto chi vince e chi perde: né i record, i numeri, gli aces o i tuffi. Ma l'abbraccio impacciato e liberatorio tra due rivali-amici che sanno di avere fatto la cosa giusta: del loro meglio.  Quello che fa anche Metz Pedersen, imponendo il suo ritmo, sfatando i luoghi comuni, fingendo di palleggiare per poi trafiggerti con un passante. Gioco, set, partita.

Read More
2017, Recensione, Festival Filiberto Molossi 2017, Recensione, Festival Filiberto Molossi

Addio fottuti musi verdi: The Jackal, il cinema è un pianeta proibito

E’ un’operazione ambiziosa ma poco riuscita quella che segna lo sbarco al cinema dei The Jackal, il gruppo di youtubers napoletani (da milioni di follower) diventati famosi in tutta Italia con i video-parodia di «Gomorra». Quelli sì esilaranti, a differenza della fantacommedia «Addio fottuti musi verdi» che forse vorrebbe essere la risposta partenopea, con presupposti ed esiti diversi, al «caso Jeeg». Peccato però che la storia di un precario a vita e bamboccione senza rimedio che viene – incredibilmente - assunto come grafico dagli extraterrestri, non strappi, se non raramente, grandi risate. Non si va al di là, insomma, di alcune chicche molto divertenti come la partecipazione autoironica di Gigi D’Alessio (alieno innamorato della Terra) e di battute (il tg che annuncia che la Juve deve restituire 30 scudetti...) che chiamano l’applauso: poco però se confrontato a tormentoni che non decollano mai e a una noiosa rappresentazione del riscatto galattico del disoccupato figlio delle stelle. Per quanto pensato come film e non come collezione di gag e girato con buona professionalità (da Francesco Ebbasta, al secolo Capaldo) a «Addio fottuti musi verdi» manca il ritmo e la scrittura della commedia: si forzano i luoghi comuni, ma il cinema resta un pianeta lontano. E proibito.

Read More