Lei mi parla ancora: i ricordi immortali di Avati e Pozzetto
È un film con cui si fa pace volentieri con Pupi Avati, questo: una specie di abbraccio inaspettato, nel momento in cui sono vietate anche le strette di mano. Sarà che c'è una commozione autentica - e sincera - nell''orto dei morti, dove la vita è altrove e una promessa è per sempre, sarà che l'82enne regista bolognese, lucidissimo nelle intenzioni e ispirato nel modo, disegna una geografia sentimentale che prima ancora di memoria è fatta di oggetti, di gesti segreti, di luoghi: come quella provincia del profondo nulla, dove è permesso anche di nevicare quando a Roma invece già splende il sole. Sarà (anche) per questi motivi che «Lei mi parla ancora» ti tira per la giacca, ti costringe a restare quando credevi di dovere andare, ti chiede di muoverti con attenzione perché i ricordi belli sono fatalmente anche i più fragili e meritano cura, pretendono costanza, accortezza, considerazione. E così, nel raccontare con laica tenerezza la sacralità di un amore lungo più di una vita, Avati gira un film sull'affetto che sopravvive alla morte, sulla paura della solitudine, su quel che resta del giorno. E sulle parole che non usa più nessuno. Avventurandosi in punta di piedi, col giusto pudore, nelle vite degli altri: che poi sono quelle del Nino e della Rina che di cognome (ma non è qui che lo verrete a sapere) fanno Sgarbi: già proprio quelli, i genitori di Vittorio e Elisabetta. Dettagli. Perché quel che conta è la disperazione di un uomo che non sa rassegnarsi alla morte della moglie: per scuoterlo la figlia gli chiede di raccontare la loro storia a un ghost writer, che ne faccia un libro. Nino è scettico, non è convinto: come farà quello scrittore in bolletta a scrivere la sua vita se non sa nemmeno mettere ordine alla propria? Il brodo coi cappelletti, una casa piena di capolavori e quel dolore brutto che non vuole andare via: mentre i tempi si confondono e il flashback scolora nel sogno, Avati cuce sintonie là dove in apparenza ci sono solo differenze, intreccia vite quando il destino sembra invece separarle. E nel tradurre in immagini il libro di Giuseppe Sgarbi trova una cifra, nonostante un impianto vecchio, una parte centrale a tratti faticosa, un controcampo (quello dello scrittore) che funziona molto meno della vicenda principale. Ma tra Pavese e Bergman, tra il ricordo che porta e quello che lascia, il film rende tangibile il giuramento dell'immortalità. Merito anche di un cast (dove nel ruolo del sindaco di Stienta trova spazio anche il parmigiano Alberto Petrolini) segnato dalla struggente presenza di Renato Pozzetto, a cui Avati a 80 anni regala il primo, dolcissimo, ruolo drammatico.