Protagonisti, 2016 Filiberto Molossi Protagonisti, 2016 Filiberto Molossi

L'ultimo round: la malinconia di Ali e quell'incontro con Rocky

Ci sono mille modi per ricordare the greatest, il più grande di tutti. Perché dire che Muhammad Ali è solo un pugile (sì, certo: anche il migliore di sempre) sarebbe come affermare che i Beatles erano quattro ragazzini che cantavano canzonette o che Hitchcock era un tizio sovrappeso che girava gialli. Più che davanti a una leggenda dello sport qui siamo davanti a un'icona del XX secolo, forse l'ultimo vero grande mito (giunto all'ultimo, inesorabile, round) del mondo prima di Internet, dello smart phone e della paella vegana. E allora bisogna celebrarlo per bene. Ecco, io un paio di film da suggerirvi ce li avrei.

Un documetario molto bello, ad esempio, che ha già 20 anni ma non li dimostra: "Quando eravamo re".  A finirlo, il regista Leon Gast ci ha impiegato 22 anni: prima pensava di farne un film sul concerto che doveva precedere l'incontro del secolo, quell'Ali vs Foreman ribattezzato Rumble in the jungle. Poi ha capito che del concerto non fregava niente a nessuno: e ne ha fatto uno splendido ritratto - politico e carismatico - dell'uomo che sul ring danzava come una farfalla.

Ma soprattutto, quello che ci piace ricordare è l'originale biopic che alla figura (anche culturalmente, oltre che socialmente) mastodontica di Cassius Clay ha dedicato Michael Mann. Uno che, tanto per dire, ha girato film come "Collateral", "Insider", "Heat""Alì" è uno dei suoi film più sottovalutati: ed è un peccato. Lo osteggiarono da subito, specie perché la parte del protagonista era andata a Will Smith, uno famoso fino a quel puntoper "Men in black" e "Il principe di Bel Air" . In realtà è un bellissimo film,  denso e scomodo come tutti quelli di Mann. Che a un personaggio già così raccontato, sviscerato, rimodellato, ha donato una luce diversa: una sorta di indecifrabile malinconia. Fateci caso: per tutto il film, nei trionfi come nelle cadute, nella gioia come nella rabbia, nello sguardo di Will Smith/Ali c'è un riflesso di tristezza. Un senso di rimpianto, una fitta sotto pelle. E' una lettura inedita e potente di chi, a volte, sembrava agli occhi meno attenti solo uno sbruffone, un provocatore.

Che poi vinceva perché - come ha spiegato Nino Benvenuti, uno che ne ha date e ne ha prese - non era solo il più forte: ma, soprattutto, il più intelligente. Abbastanza da essere, quando serviva, anche spiritoso: come alla cerimonia degli Oscar del 1977, quando sul palco salì Sly Stallone, reduce dal successo di "Rocky". Guardate il video per vedere cosa successe...

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Blackhat: il cinema liquido di cyber Mann

E’ un cinema liquido, che non corre né cammina, ma «scivola», quello di Michael Mann: con le sue immagini dense, quelle notti infinite di lancinante bellezza, i blu ghiaccio, i bianchi acciaio, i verdi acido. Un cinema che tiene la testa sott’acqua e la tira fuori solo quando necessario: morbido anche quando violento, imploso, romantico, malinconico, instancabile. Come la macchina da presa, in costante (anche quando impercettibile) movimento, sempre, come quest’epoca virtuale, accesa, connessa. 
E così stavolta, cambiata la password al genere, Mann con «Blackhat» viaggia, senza cercare facili scorciatoie, sulle autostrade informatiche, dove i file vanno più veloci dei pensieri, girando un cyber thriller freddo e affascinante, zeppo di codici segreti, di silenzi da decrittare, di sussurri e rimpianti che non hanno un indirizzo e-mail: qualcosa tra il desiderio e il disagio, per qualche bit (e qualche dollaro) in più.
Un hacker che sta scontando 15 anni di galera (Chris Hemsworth di «Thor» e «Rush») viene liberato dall’Fbi affinché dia una mano a loro e al governo cinese a scovare un terrorista informatico che ha appena attaccato una centrale nucleare... Su una scacchiera già nota – ma in un’era totalmente nuova – Mann muove personaggi inverosimili utili però a realizzare un film ipertestuale che rompe con le regole del racconto classico per avvicinarsi (a costo di alienarsi il pubblico più «regolare») a un’esperienza, non solo in senso estetico, digitale. Un duello a distanza che si combatte, prima che in strada, sui server a cui il regista di «Insider» e «Collateral» dona il suo sguardo rotondo, potente, «sentimentale»: aprendo squarci di irresistibile suggestione. Come nella sequenza della prima sparatoria, un’esperienza anche a livello acustico: mentre guardie e ladri si smarriscono negli stretti e curvi cunicoli di un labirinto urbano e i vuoti e i pieni disegnano l’architettura di un’emozione.

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