The Holdovers, una commedia della comprensione umanista e sfidante
E' un cinema emotivo sempre dalla parte degli esclusi, che invita al viaggio (e alla fuga) quello di Alexander Payne: uno che per ambientare un film nel '70 lo gira in 35 mm, con la stessa grana - e lo stile - delle pellicole dell'epoca, sottile e affettuoso omaggio a una New Hollywood votata al ribellismo e al cambiamento. Vedi «The Holdovers» e pensi subito che porti a braccetto «Breakfast club» e «L'attimo fuggente»; ma più di tutto è l'incontro tra due (anzi tre) modi differenti di essere emarginati, di essere messi (dal mondo, dalla società «competitiva») da parte: un prof di Storia antica odiato da tutti, sarcastico e (causa malattia) maleodorante e con un occhio che va per conto suo, uno studente casinista di cui la madre si è dimenticata l'esistenza, una cuoca che ha visto il figlio morire in Vietnam e fa da mangiare per ricchi rampolli che in quello schifo non ci andranno mai. Li mette insieme il caso o, meglio, il destino: costretti a trascorrere le vacanze di Natale nella loro scuola per ricchi dove non è rimasto nessun altro finiranno per formare una scombinata ma autentica famiglia di fatto. Perché se è vero che «se vuoi veramente comprendere il presente o te stesso, devi iniziare dal passato», il futuro, forse, è ancora tutto da scrivere.
Commedia agrodolce, umanista e sfidante, scritta molto bene dal due volte premio Oscar Payne, «The Holdovers» è un film dove c'è molta vita e altrettanta solitudine: un cinema della comprensione - là dove la vita avanza per stereotipi - che poggia sulle spalle di interpreti (dal deb sorprendente Dominic Sessa alla bravissima Da'Vine Joy Randolph) in stato di grazia, a partire da quel fenomeno che di cognome fa Giamatti e che il regista incontra nuovamente 20 anni dopo «Sideways». Uno che per festeggiare il Golden Globe (il terzo...) appena vinto va al fast food in smoking: cheapeau!