Sole alto, tra amore e guerra una porta lasciata aperta al futuro
Triplo salto (mortale, si intende) tra amore e guerra: vent'anni di ex Jugoslavia in tre movimenti, là dove è più facile riparare le case (e le cose) che le persone. Ma c'è ancora tempo – forse - per lasciare una porta aperta al futuro. Tre coppie diverse interpretate dagli stessi (bravissimi) attori: l'estate del '91, piena di paure e di promesse, prima della pioggia e dell'inferno; quella del 2001, ricoperta di cicatrici e incancellabili rancori; il 2011, tra rave e rimorsi, quando è già troppo tardi (anzi, no...) per chiedere scusa. Un racconto spezzato che però (come è stato il Paese che racconta) è uno solo: stallo morale dove non esistono (e mai sono esistiti) ragione e torto, dove non ci sono vincitori, ma solo vinti.
Doloroso in quel suo andare e tornare ai margini del sopravvivere, <Sole alto>, il nuovo film del prolifico Dalibor Matanic (nato a Zagabria 41 anni fa), si muove lungo il solco della frattura profonda, della crepa antica (non solo etnica e certamente non sanata) che divide (ancora oggi) i serbi dai croati. L'odio, il risentimento, la speranza: un ritratto dove il pubblico è raccontato dal privato, in cui la somma di brevi, emblematici, istanti detta il segno (e il senso) di un'epoca che ancora prova a riemergere dal tuffo della Storia.
Fisico, <violento> quanto lo sono le passioni degli uomini, eppure interamente tradotto in una grammatica di silenzi, imbarazzi e discorsi sospesi, <Sole alto>, premio della giuria al <Certain regard> a Cannes 2015, spinge senza retorica sui tasti del melodramma moderno, di un amore (per una ragione o per l'altra: anzi, sempre per la stessa...) impossibile, quando correre dietro al desiderio non serve più e le ragioni del sentimento vanno a sbattere contro i muri invisibili di frontiere senza cuore. Scritto con equilibrio dallo stesso Matanic (adolescente all'inizio del conflitto) che più che subirne i limiti sfrutta i vantaggi di una costruzione a episodi, il film, inizialmente un po' elementare (con una sorta di Romeo e Giulietta dei Balcani che sognano di fuggire dalla follia), cresce però col trascorrere dei minuti, regalando nell'ultimo frammento (che è anche il più difficile oltre che il più bello) l'emozione di un gesto che è un invito, nonostante tutto, a ricominciare.