I miei giorni più belli, ritratto dell'artista da giovane
Quando si leggeva Stendhal e la bella della scuola portava le calze a rete. Quando l'amore era una porta lasciata socchiusa, oltre che una cosa maledettamente seria. Quando il Muro cadeva e con lui anche le macerie dell'infanzia: e si poteva baciare all'infinito qualcuno che ancora non sapevi che un giorno avresti chiamato ricordo. Oppure rimpianto.
E' un film toccante e vulnerabile, truffautiano (e autobiografico) sino al midollo, uno struggente trattato antropologico-sentimentale che conosce il codice segreto dell'anima propria e altrui, <I miei giorni più belli>, l'ultimo film del francese Arnaud Desplechin, classe '60, che racconta di un (altro) sé smarrito nel corso del tempo, nell'alfabeto di emozioni non sempre traducibili di chi partito ragazzo torna, inevitabilmente, uomo.
Divisa in tre atti (<Trois souvenirs de ma jeunesse> come recita il titolo originale, più efficace di quello italiano: Infanzia, Russia e Esther, dove quest'ultima è la parte largamente preponderante) più un epilogo, elegante negli ambienti, nelle <cose>, nei movimenti, ma anche nei modi, la pellicola incrocia un personaggio - Paul Dedalus (un cognome ingombrante, che riporta a Joyce al suo <Ritratto dell’artista da giovane>) -, che il regista francese aveva già incontrato in un film di vent'anni fa, <Comment je me suis disputé...(ma vie sexuelle)>: accarezzandone qui gli inizi, tra una madre inguaribilmente depressa, imprese da guerra fredda e soprattutto lei, Esther, l'amore assoluto...
Insolito (e colto) romanzo di formazione, singolare nel trasformare la nostalgia nella materia, molle e perfetta, di una sorta di thriller esistenziale, <I miei giorni più belli>, con cui Desplechin ha vinto un César (l'Oscar francese) come miglior regista dell'anno nonché la <Quinzaine des réalisateurs> a Cannes 2015, è un film curioso, che sa prendersi dei rischi, andando al di là della semplice educazione sentimentale per accompagnare il proprio protagonista alla ricerca dell'identità, dell'autodeterminazione, della libertà: che è sempre cosa sfuggente, quanto almeno un gioco di spie nell'incredibile avventura di essere giovani. Sguardi in macchina, voce off, split screen, uso vintage del mascherino: una bella mano e il piacere, romantico e smorfioso, di raccontare, Desplechin gira con grande personalità un film (che avrebbe potuto tranquillamente essere un segmento dell'opera collettiva <Tous les garçons et les filles de leur âge>) colmo di utopia e passione che ha gli occhi e la bocca degli inediti e bravissimi Quentin Dolmaire e Lou-Roy Lecollinet, ragazzi di oggi con i tormenti di ieri. E di sempre.
Al di là delle montagne, ravioli al vapore conditi con le lacrime
Comincia e finisce sulle note della scatenata <Go West> dei Pet shop boys e corre sui binari della nostalgia, di una giovinezza che è un battito di ciglia, <Al di la' delle montagne>, il bellissimo film in tre movimenti - una prima parte in 4/3 ambientata nel 1999, l'era delle grandi speranze, una seconda (in formato panoramico) nel 2014 e un terzo atto in cinemascope che ci porta nel 2025, futuro alieno in cui per capire tuo figlio avrai bisogno addirittura del traduttore di Google - del cinese Jia Zhang-Ke: uno struggente affresco privato e sociale che il regista di <Sill life> (Leone d'oro a Venezia nel 2006) traduce in una fotografia del terzo millennio colma di disincanto e di passione, in un racconto anche morale che riflette, con grande partecipazione, sul tempo che passa e su quello che resta, dove i treni da lenti diventano veloci e invece che sui libri si studia sull'iPad, mentre ci scopriamo sempre più soli.
Una storia d'amore e di amicizia che coinvolge la bella Tao, indecisa - nella Cina che vuole cambiare pelle e imita l'Occidente - tra due pretendenti, amici tra loro da sempre: il minatore Liangzi e l'affarista Zhang. Sceglie quest'ultimo, lo sposa ma poi divorzia. E suo figlio, l'unica sua vera grande gioia, emigra col padre in Australia. Dimenticandola: o forse no...
Sublime interprete anche altrove della Cina contemporanea, il maestro della Sesta Generazione sottolinea con impressionante lucidita' le conseguenze dei cambiamenti economici sull'individuo, osservando da vicino - con la capacita' che appartiene a pochi di comprendere nel profondo un fenomeno mentre accade - la dolorosa ma rapidissima metamorfosi di un popolo la cui identità viene sbriciolata nell'impatto col capitalismo, in una mutazione che ridisegna anche i confini della geografia dei sentimenti.
Dalla fiducia entusiasta nel secolo nuovo (e nella propria, spensierata, gioventù) all'amarezza di un Paese che ha perso, insieme alle tradizioni, anche se stesso: in un'emblematica vicenda privata <Al di la' delle montagne> (il miglior film secondo noi dello scorso Festival di Cannes) coglie, anche attraverso le canzoni, la trasformazione culturale e emotiva di una nazione. Guardando indietro e avanti (la parte più debole del film), tra le speranze di ieri e lo smarrimento di domani; nella certezza che a volte, prima che la neve torni a cadere, i ravioli al vapore conoscono un solo condimento: le lacrime.
Sole alto, tra amore e guerra una porta lasciata aperta al futuro
Triplo salto (mortale, si intende) tra amore e guerra: vent'anni di ex Jugoslavia in tre movimenti, là dove è più facile riparare le case (e le cose) che le persone. Ma c'è ancora tempo – forse - per lasciare una porta aperta al futuro. Tre coppie diverse interpretate dagli stessi (bravissimi) attori: l'estate del '91, piena di paure e di promesse, prima della pioggia e dell'inferno; quella del 2001, ricoperta di cicatrici e incancellabili rancori; il 2011, tra rave e rimorsi, quando è già troppo tardi (anzi, no...) per chiedere scusa. Un racconto spezzato che però (come è stato il Paese che racconta) è uno solo: stallo morale dove non esistono (e mai sono esistiti) ragione e torto, dove non ci sono vincitori, ma solo vinti.
Doloroso in quel suo andare e tornare ai margini del sopravvivere, <Sole alto>, il nuovo film del prolifico Dalibor Matanic (nato a Zagabria 41 anni fa), si muove lungo il solco della frattura profonda, della crepa antica (non solo etnica e certamente non sanata) che divide (ancora oggi) i serbi dai croati. L'odio, il risentimento, la speranza: un ritratto dove il pubblico è raccontato dal privato, in cui la somma di brevi, emblematici, istanti detta il segno (e il senso) di un'epoca che ancora prova a riemergere dal tuffo della Storia.
Fisico, <violento> quanto lo sono le passioni degli uomini, eppure interamente tradotto in una grammatica di silenzi, imbarazzi e discorsi sospesi, <Sole alto>, premio della giuria al <Certain regard> a Cannes 2015, spinge senza retorica sui tasti del melodramma moderno, di un amore (per una ragione o per l'altra: anzi, sempre per la stessa...) impossibile, quando correre dietro al desiderio non serve più e le ragioni del sentimento vanno a sbattere contro i muri invisibili di frontiere senza cuore. Scritto con equilibrio dallo stesso Matanic (adolescente all'inizio del conflitto) che più che subirne i limiti sfrutta i vantaggi di una costruzione a episodi, il film, inizialmente un po' elementare (con una sorta di Romeo e Giulietta dei Balcani che sognano di fuggire dalla follia), cresce però col trascorrere dei minuti, regalando nell'ultimo frammento (che è anche il più difficile oltre che il più bello) l'emozione di un gesto che è un invito, nonostante tutto, a ricominciare.