2016, Festival, Recensione, 2015 Filiberto Molossi 2016, Festival, Recensione, 2015 Filiberto Molossi

I miei giorni più belli, ritratto dell'artista da giovane

Quando si leggeva Stendhal e la bella della scuola portava le calze a rete. Quando l'amore era una porta lasciata socchiusa, oltre che una cosa maledettamente seria. Quando il Muro cadeva e con lui anche le macerie dell'infanzia: e si poteva baciare all'infinito qualcuno che ancora non sapevi che un giorno avresti chiamato ricordo. Oppure rimpianto.

E' un film toccante e vulnerabile, truffautiano (e autobiografico) sino al midollo, uno struggente trattato antropologico-sentimentale che conosce il codice segreto dell'anima propria e altrui, <I miei giorni più belli>, l'ultimo film del francese Arnaud Desplechin, classe '60, che racconta di un (altro) sé smarrito nel corso del tempo, nell'alfabeto di emozioni non sempre traducibili di chi partito ragazzo torna, inevitabilmente, uomo.

Divisa in tre atti (<Trois souvenirs de ma jeunesse> come recita il titolo originale, più efficace di quello italiano: Infanzia, Russia e Esther, dove quest'ultima è la parte largamente preponderante) più un epilogo, elegante negli ambienti, nelle <cose>, nei movimenti, ma anche nei modi, la pellicola incrocia un personaggio - Paul Dedalus (un cognome ingombrante, che riporta a Joyce al suo <Ritratto dell’artista da giovane>) -, che il regista francese aveva già incontrato in un film di vent'anni fa, <Comment je me suis disputé...(ma vie sexuelle)>: accarezzandone qui gli inizi, tra una madre inguaribilmente depressa, imprese da guerra fredda e soprattutto lei, Esther, l'amore assoluto...

Insolito (e colto) romanzo di formazione, singolare nel trasformare la nostalgia nella materia, molle e perfetta, di una sorta di thriller esistenziale, <I miei giorni più belli>, con cui Desplechin ha vinto un César (l'Oscar francese) come miglior regista dell'anno nonché la <Quinzaine des réalisateurs> a Cannes 2015, è un film curioso, che sa prendersi dei rischi, andando al di là della semplice educazione sentimentale per accompagnare il proprio protagonista alla ricerca dell'identità, dell'autodeterminazione, della libertà: che è sempre cosa sfuggente, quanto almeno un gioco di spie nell'incredibile avventura di essere giovani. Sguardi in macchina, voce off, split screen, uso vintage del mascherino: una bella mano e il piacere, romantico e smorfioso, di raccontare, Desplechin gira con grande personalità un film (che avrebbe potuto tranquillamente essere un segmento dell'opera collettiva <Tous les garçons et les filles de leur âge>) colmo di utopia e passione che ha gli occhi e la bocca degli inediti e bravissimi Quentin Dolmaire e Lou-Roy Lecollinet, ragazzi di oggi con i tormenti di ieri. E di sempre.

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I 10 film più belli del 2015

Ma vogliamo davvero provarci? Sempre difficile fare dei bilanci: però una classifica dei migliori film 2015 è d'obbligo... Ecco i nostri 10: con qualche rimpianto.  

10. Il racconto dei racconti 

Favole antiche per denunciare ossessioni contemporanee: un film "impossibile" è sottovalutato. Forse per questo gli vogliamo ancora bene. 

 9. The walk

Questo proprio non ve lo siete filati: peccato, perché ci ha insegnato come un'impresa assurda può diventare un'opera d'arte. E il 3D per una volta era degno di quel nome. 

8. Timbuktu 

Per quella partita a pallone senza palla: atto sublime di resistenza al terrore. Il film che spiegava l'Isis molto prima del Bataclan. 

7. 45 anni 

Lo spettro dell'altra abita in soffitta: chiuso in un sentimento ibernato per troppi anni. Grande film sull'ipocrisia della coppia. 

6. Whiplash 

Il dovere di essere i migliori la' dove l'arte è fatica, sudore, sangue. Con  un  cattivo ben piu' pauroso di quello di Star Wars

 5. Mustang

Quando "Piccole donne" incontra "Il giardino delle vergini suicide": una delle sorprese dell'anno. Un film per capire cos'è davvero la Turchia. 

 4. American sniper

Il vecchio Clint ha ancora una gran mira: il suo cecchino è un personaggio enorme dei nostri tempi, nel bene e nel male. 

3. Inside out 

Imprescindibile. La Pixar fa sul serio ed entra dentro la nostra testa: un film adulto in cui ci si può commuovere anche per l'addio a un amico immaginario.

2. Forza maggiore 

Una coppia sepolta sotto la valanga del non detto: mentre la crepa della loro quotidianità diventa voragine. Grande. 

1. Birdman 

Per il coraggio, l'audacia, quel recitare "live" tra palco e realtà: dove è più difficile essere (super) eroi. 

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Irrational Man: delitto e castigo secondo Woody

Tagliato da pochi giorni, con rassegnato pessimismo ma anche irrefrenabile vitalità (che vuoi dirgli a uno che negli ultimi 34 anni ha girato 36 film?), il traguardo degli 80 anni, l'intramontabile Woody Allen mette di nuovo in scena - non prima di avere scomodato Dostoevskij e Kierkegaard (due vecchi amici di costruttive letture) -, il delitto (im)perfetto, tornando su uno dei suoi territori di caccia preferiti (da <Crimini e misfatti> a <Match point>, da <Scoop> a <Sogni e delitti>): il thriller morale.

Riflessione colta sui limiti di una filosofia che non riesce realmente a sovvertire o almeno a spiegare, a contatto con la vita vissuta (e il suo soggettivismo), l'ordine delle cose, <Irrational man> parte piano piano, indossando la maschera della commedia sentimentale, raffinata ma già molto vista, per poi però svoltare bruscamente (cogliendo di sorpresa anche lo spettatore) nel vicolo cieco dell'ego e della presunzione, impervia zona d'ombra dove è possibile persino illudersi che anche il peggiore dei crimini possa essere giustificato.

Abe (Joaquin Phoenix, con pancetta), un affascinante docente universitario che ha perso il gusto per la vita, va a letto con una collega (Parker Posey) e flirta con una studentessa (Emma Stone, dagli immensi occhi blu): ma niente sembra più davvero interessarlo. Fino a quando non pensa di potere finalmente essere utile a qualcuno, aiutando una sconosciuta a non perdere i suoi figli. Come? Pianificando di uccidere il giudice che vuole toglierle l'affidamento...

La crisi (creativa e personale) dell'intellettuale, la mancanza di senso, il caso, l'impunità, la giustizia, la colpa, la banalità del male, l'umana debolezza, il libero arbitrio (e la sua vertigine): rivisitati alcuni dei temi portanti del suo cinema, Woody, sempre a suo agio (a costo di ripetersi) tra delitto e castigo, costruisce una commedia nera dove, con la complicità di Kant e Sartre (perché <l'inferno sono gli altri>, anzi siamo noi...), porta alle estreme conseguenze un provocatorio dibattito etico (può davvero un omicidio rendere il mondo un posto migliore?): chiudendo tra gli applausi con un colpo di scena (e di genio) degno del miglior fan di Hitchcock.

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Quell'uomo tutto di un pezzo sul Ponte delle spie

E’ gente così: uomini tutti d’un pezzo. Che più li colpisci, più li cacci per terra, più loro si rialzano, si rimettono in piedi. Uomini ordinari che a volte fanno cose straordinarie: rischiando in proprio, solo perché ci credono. O perché, semplicemente, è giusto. Metteteci il bimbo di «E.T.», lo sceriffo de «Lo squalo», Schindler certamente, ma anche il combattivo avvocato di «Amistad», il capitano che salva il soldato Ryan e il presidente Lincoln: poi alla lista aggiungete James B. Donovan, l’eroe borghese de «Il ponte delle spie». Vi diranno che questo è un film sulla guerra fredda, sulla paranoia americana del pericolo rosso, un avvincente girotondo di segreti che si nutrono dell’ombra. Non fa una piega. Ma più di tutto è una pellicola sull’integrità morale (che no, non è in vendita su Ebay), sul rispetto della legge (anche quando non ci piace), sui valori fondanti di un’etica che ci fa dire (e sapere) che «ogni uomo è importante». Né un thriller né un film storico, almeno non solo, questo «Bridge of spies»: ma la celebrazione, complice una storia vera, dell’eroe spilberghiano per eccellenza, il buon padre di famiglia scolpito nel marmo, mai arrendevole, legalitario, consapevole dei diritti e dei doveri alla base della democrazia e della civiltà: e non per questo meno umano o meno spaventato. Ma sicuro sin da subito da che parte stare: che poi è quella dell’onore e della lealtà.
Uno come Donovan, appunto: avvocato delle assicurazioni a cui tocca in sorte di difendere niente meno che una spia russa, il colonnello Abel. Tutti lo vogliono morto: lui invece, guadagnandosi il disprezzo di molti, riesce a evitargli la sedia elettrica. Una mossa che si rivelerà vincente quando, nel ‘62, Donovan verrà reclutato dal governo per scambiare Abel con un pilota della Cia abbattuto nella Germania Est. 
Ambientato nella Berlino appena divisa (e lacerata) dal Muro, molto classico ma altrettanto ben fatto, attento nella ricostruzione (esaltata dalla fotografia vintage di Kaminski), «Il ponte delle spie», scritto (con Matt Charman) dai fratelli Coen, brilla subito in apertura (da manuale della vecchia maniera la sequenza del pedinamento), per poi travestirsi da legal thriller prima di tuffarsi nella spy story con sottotesto politico: terreni dove Spielberg si muove agile affidandosi al fidatissimo Tom Hanks. Lasciando però al laconico Mark Rylance (candidato due volte – per questo film e per una serie tv – ai Golden Globes 2016) ricami e spigolature. 

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Perfect day: finché c'è guerra (e ironia) c'è speranza

Vent'anni fa, <da qualche parte nei Balcani>, in una zona famosa per due cose, lo yogurt e il senso dell'umorismo: dove il teatro di guerra diventa teatro dell'assurdo e l'acqua costa sei dollari al secchio. Ma certe ragazze sono così belle (<Sei diversa dall'ultima volta>. <Sì, sono vestita...>) che ti fanno scordare anche le case dilaniate, le strade sterrate, le vendette sommarie. E' un film senza protocollo, figlio del paradosso, che cammina agile sul terreno minato della dissonanza, <Perfect day>, stallo reale ed emotivo di un gruppo di sradicati (<casa tua è ovunque dove ci sia bisogno d'aiuto>) in realtà in perenne movimento: a costo di tornare al punto di partenza e lanciarsi nell'ennesima missione probabilmente urgente, sicuramente umanitaria e forse inutile. O forse no.

Una pellicola matrioska, come la definisce giustamente lo spagnolo Fernando Leon de Aranoa, regista anche de <I lunedì al sole> (bello vero: recuperatelo): un dramma dentro a una commedia dentro a un film di guerra dentro un road movie. Una storia che non sfugge i generi, ma, anzi, tra schermaglie sentimentali, bambini che vogliono un pallone e un <rat pack> di angeli con la faccia sporca, li moltiplica: giocando sul contrasto continuo dell'amaro e del dolce, del serio (e a volte tragico) e del faceto.

La giornata (per nulla perfetta) di alcuni cooperanti alla fine della guerra dell'ex Jugoslavia: il disilluso che vorrebbe chiuderla qui, il <matto> che non ha nessuno che l'aspetta, la pivellina idealista, la tosta arrabbiata. Squadra imperfetta per un match senza regole: ma c'è un morto da tirare su da un pozzo. Peccato che nessuno abbia una corda...

Bel ritmo, retorica assente, ottimo cast internazionale (Benicio Del Toro, Tim Robbins, Olga Kurylenko, Mélanie Thierry, Sergi Lopez...) e soprattutto un tono da commedia, spesso scanzonata e sarcastica, calato in un contesto assolutamente drammatico. La chiave giusta che fa la fortuna di questa pellicola rock e corale, che guarda a <Mash> ed è già stata applaudita a Cannes: un film in cui la battaglia contro i mulini a vento di chi, per vocazione e per mestiere, porta aiuto agli altri non ha il passo grave dell'impegno sbattuto in faccia, ma diventa piuttosto riflessione disincantata sull'assurdità dell'odio e del rancore, là dove la prima vittima della guerra è ancora e sempre la ragione.

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