Asteroid City, la quarantena di Wes Anderson
Fa il pieno di stelle e dal cielo chiama in soccorso persino gli alieni Wes Anderson a cui la depressione da pandemia ha ispirato un'originale quarantena ante-litteram: laggiù a «Asteroid City», nel più classico dei non luoghi, a metà strada tra la fantasia e il teatro, il cinema e il libro illustrato, dove, negli anni '50, un variegato gruppo di persone si ritrova bloccato per giorni a causa del rapido passaggio di un innocuo extraterrestre... Simile e solidale con alcuni dei suoi personaggi che si sentono, come lui, fuori dal mondo, l'imprevedibile regista americano, nel suo ultimo film gioca con i vari strati della finzione e della rappresentazione non rinunciando ai suoi stilemi: dalla cura figurativa (e dalla reinvenzione di un universo coloratissimo e cartonato) alla narrazione a vasi comunicanti, dal racconto corale a un'ironia buffa, tenera. Pur bellissimo «da vedere», però il film (nel film nel film), colto e divertente, è a tratti un po' noioso e conferma a tratti (ma i suoi fedelissimi non saranno d’accordo) una certa stanchezza in una delle voci più rare del cinema internazionale. Che comunque, complice anche un parterre impressionante di divi (da Tom Hanks a Scarlett Johansson), impone anche stavolta il suo tocco e non rinuncia al piacere, sottile, dell'invenzione.
Elvis: il re è vivo, viva il re
Il re è vivo: viva il re. E' una Cadillac rosa col motore di una Ferrari, «Elvis»: più che un biopic un film-manifesto, la versione di Baz: un rutilante, visionario, immaginifico e strabordante big show sulla «rivoluzione Presley», su Elvis come dio del rock, leggenda, quello che volete o vi pare: ma soprattutto in quanto fenomeno capace di influenzare, in modo improvviso ma definitivo, la cultura di massa. Elvis, il ragazzo e il simbolo: che sul palco, limitandosi a essere semplicemente se stesso, imprime una svolta decisiva alla morale, al cambiamento dei costumi, alla libertà sessuale (il suo modo di muoversi, che fece scandalo...), persino (lui cresciuto tra i neri e con la loro musica) all'integrazione razziale. Accolto al Festival di Cannes da una standing ovation di 12 minuti il film di Luhrmann, che è piaciuto di più ai critici europei che a quelli statunitensi (trattasi, specie da quelle parti, comunque di «divinità» e il rischio blasfemia è sempre presente...) punta a fare della storia di Elvis, breve (morì, sfatto e distrutto, ad appena 42 anni) e eterna, un grande racconto americano. Dove più che la verità o la finzione, il racconto o l'interpretazione, conta - e esce potente dallo schermo - il cinema: forte di un montaggio insostenibile e spavaldo (le inquadrature sono brevissime, non durano più di 4-5 secondi l'una), il film (puntellato di una colonna sonora di guest star, tra cui i nostri Maneskin) assomiglia a Elvis nella sua sovrabbondanza, nel suo darsi, in maniera spericolata e generosa, al pubblico, alla gente. E allora ecco che Luhrmann, non proprio un alfiere della sottrazione, usa senza risparmio tutto quello che ha in dote: split screen, graphic novel, ralenti, fermo immagine, materiale d'epoca, scritte, sovrapposizioni. Ne esce un film visionario e potente, con una prima parte bellissima, frutto di un'energia incandescente e una seconda, invece, quella declinante, più ripiegata su stessa, ma non per questo (i momenti musicali sono straordinari, trascinanti o struggenti a seconda del momento) meno incisiva. Il regista di «Moulin rouge» ha poi un'idea vincente e funzionale nel consegnare la parte dell'io narrante all'antagonista, il colonnello Parker (che non era né colonnello né tanto meno si chiamava Parker...), il manager padre-padrone di Elvis. Un dualismo, quello tra Presley e il colonnello, su cui si regge la parte più puramente narrativa (e meno di palco e di pancia) del film: un rapporto sublimato padre/figlio (o vittima/carnefice) che mette, uno di fronte all'altro, una grande star nel ruolo del «cattivo», Tom Hanks, e un quasi sconosciuto - Austin Butler, autore di una performance (anche dal punto di vista fisico) clamorosa - in quello del protagonista.
The Post: è la stampa bellezza!
<La stampa serve chi è governato, non chi governa>.
Non credete a me, che sono stramaledettamente di parte: ma credete a lui, che ha vinto 3 Oscar, ha fatto volare alieni e biciclette, ha guardato negli occhi squali ed eroi, truffatori e presidenti. Credete a lui, che sa (e ha dimostrato) che <la qualità porta profitto>. E che non teme smentita quando dice che <i giornalisti, grazie alla libertà di stampa, sono i guardiani della democrazia>. Credete a Steven Spielberg, 71enne american dreamer che, dopo <Il ponte delle spie>, rilegge ancora la storia recente portando stavolta il suo salutare idealismo in redazione - tra taccuini, lynotipe, maniche arrotolate di camicie spesso a righe, telefoni a disco che non smettono di squillare e tv in bianco e nero perennemente accese -, nel passato presente di chi stanco di leggere notizie sfidò il potere cominciando a scriverle: <Se non le facciamo noi le domande scomode chi le farà?>.
Nel '71 del falco Nixon, la storia verissima e altrettanto emblematica di Katharine <Kay> Graham, l'elegante signora che mise fine al tempo delle menzogne: la prima donna (in un mondo totalmente dominato dagli uomini) proprietaria di un quotidiano importante come il Washington Post. Sempre a rincorrere il ben più quotato New York Times, il giornale della capitale ha però l'occasione di farsi prendere sul serio da tutti, alte sfere comprese, grazie all'inchiesta sui Pentagon papers, una bomba che può portare alla luce decenni di bugie sulla guerra in Vietnam. Documenti top secret su cui, seppure dopo il Times, mette le mani anche il coraggioso direttore del Post Ben Bradlee. Pubblicarli però potrebbe costare carissimo sia a lui che a Kay...
Classico e civile, orgogliosamente dalla parte giusta, <The Post>, che inizia come un war movie, prosegue come una spy story e poi si diverte a toccare le corde del thriller come quelle del cinema politico, ha il grande merito di essere un film (nonostante si svolga quasi mezzo secolo fa) doppiamente attuale: da una parte per la rivendicazione del ruolo delle donne e la denuncia di un sistema che le voleva (e ancora in certi casi le vuole) parte dell'arredamento, soprammobili muti che non si immischino nei <giochi> degli uomini; dall'altra per la grande battaglia per la libertà di stampa, nuovamente minacciata ai giorni nostri da un potere a cui piacerebbe imbavagliarla, silenziarla. Due binari su cui la pellicola di Spielberg (una sorta di prequel di <Tutti gli uomini del presidente>...), candidata a 2 Oscar (miglior film e migliore attrice), viaggia con profitto contemporaneamente, lasciando che la grande agilità della macchina da presa (i piani sequenza, le riprese dall'alto, quei movimenti <spezzati> eppure morbidi) riscatti il rischio di una certa teatralità della messa in scena. Celebrando, infine, senza deludere le aspettative, l'incontro tra due mostri sacri del cinema moderno come Meryl Streep - enorme anche nei dubbi e nelle umane insicurezze del suo personaggio - e Tom Hanks. Paladini di un film urgente e necessario che ha grandi ma non ostentati momenti: come quando la rotativa si mette in moto e la redazione trema, scrivanie, sedie, tutto. Come un terremoto capace di fare crollare un castello di bugie, come il segnale che indietro no, non si torna.
Sully, con il patriarca Clint decolla il fattore umano
<Non sono un eroe, ho solo fatto il mio lavoro>.
Non lo spieghi, nemmeno tra mille anni, il cinema di Clint Eastwood se al centro, ma proprio lì nel mezzo, non ci metti lui: l'uomo. Non ne cogli la tensione morale, il senso del trionfo (pieno ma mai sfacciato, anzi sofferto) dell'individuo sul sistema, quel suo farsi comunità (<l'abbiamo fatto insieme: siamo sopravvissuti>) là dove invece si cerca solo di dividere, di separare, di ridurre tutto a calcolo, probabilità, variabile.
Ti prende in contropiede <Sully>, sin dall'inizio: quando se ne va via sul filo del fuorigioco sparando a freddo un bell'incipit secco, rifiutando le trappole del disaster movie per riscrivere anzi le regole del climax, precipitando letteralmente dentro alla storia per domandarsi se ne reggeremo mai l'impatto. Lontano chilometri dalle ruffianerie hollywoodiane (e dalle facili spettacolarizzazioni), fuori dagli schemi del genere, il nuovo film del patriarca Eastwood celebra la bellezza cristallina e indifesa del fattore umano, davanti al paradosso (il)logico di un potere che, anche nell'imprevisto, crede al contrario solo nella procedura.
Nel mondo dove la simulazione vale più della realtà e il manuale dei buoni propositi è tenuto in maggior conto della vita vissuta, l'incredibile storia vera di Chesley <Sully> Sullenberger, il pilota che nel 2009, con entrambi i motori dell'aereo fuori uso, tentò l'ammaraggio nel fiume Hudson salvando tutti i 155 passeggeri a bordo. Un <miracolo> che però gli costò una commissione d'inchiesta: aveva davvero preso la decisione migliore?
Parabola kafkiana di un gigante dell'antiretorica che stava scomodo sul piedistallo, uomo comune (e come tale disorientato) capace di cose straordinarie, stremato e consumato dalla sua stessa impresa, <Sully> (interpretato da un Tom Hanks tirato e invecchiato di cent'anni, misurato e bravissimo) affida a un realismo senza vezzi una costruzione a flashback dove, tra media opprimenti e computer fallibili, sono l'etica del lavoro, la professionalità, la serietà, il coraggio, il buon senso, il dovere, la solidarietà a uscirne vincitori. I capisaldi che l'America dei mutui, travolta dalla crisi, aveva dimenticato, tralasciando i diritti dei molti per continuare a difendere – secondo la procedura – gli interessi dei pochi. E così, alla fine, è impossibile non scorgere in quei passeggeri spaventati e infreddoliti che camminano in precario equilibrio sulle ali di lamiera di un uccello ferito reclinato sull'acqua qualcosa di più di un evento incredibile: ma l'America tutta, l'umanità intera.
Quell'uomo tutto di un pezzo sul Ponte delle spie
E’ gente così: uomini tutti d’un pezzo. Che più li colpisci, più li cacci per terra, più loro si rialzano, si rimettono in piedi. Uomini ordinari che a volte fanno cose straordinarie: rischiando in proprio, solo perché ci credono. O perché, semplicemente, è giusto. Metteteci il bimbo di «E.T.», lo sceriffo de «Lo squalo», Schindler certamente, ma anche il combattivo avvocato di «Amistad», il capitano che salva il soldato Ryan e il presidente Lincoln: poi alla lista aggiungete James B. Donovan, l’eroe borghese de «Il ponte delle spie». Vi diranno che questo è un film sulla guerra fredda, sulla paranoia americana del pericolo rosso, un avvincente girotondo di segreti che si nutrono dell’ombra. Non fa una piega. Ma più di tutto è una pellicola sull’integrità morale (che no, non è in vendita su Ebay), sul rispetto della legge (anche quando non ci piace), sui valori fondanti di un’etica che ci fa dire (e sapere) che «ogni uomo è importante». Né un thriller né un film storico, almeno non solo, questo «Bridge of spies»: ma la celebrazione, complice una storia vera, dell’eroe spilberghiano per eccellenza, il buon padre di famiglia scolpito nel marmo, mai arrendevole, legalitario, consapevole dei diritti e dei doveri alla base della democrazia e della civiltà: e non per questo meno umano o meno spaventato. Ma sicuro sin da subito da che parte stare: che poi è quella dell’onore e della lealtà.
Uno come Donovan, appunto: avvocato delle assicurazioni a cui tocca in sorte di difendere niente meno che una spia russa, il colonnello Abel. Tutti lo vogliono morto: lui invece, guadagnandosi il disprezzo di molti, riesce a evitargli la sedia elettrica. Una mossa che si rivelerà vincente quando, nel ‘62, Donovan verrà reclutato dal governo per scambiare Abel con un pilota della Cia abbattuto nella Germania Est.
Ambientato nella Berlino appena divisa (e lacerata) dal Muro, molto classico ma altrettanto ben fatto, attento nella ricostruzione (esaltata dalla fotografia vintage di Kaminski), «Il ponte delle spie», scritto (con Matt Charman) dai fratelli Coen, brilla subito in apertura (da manuale della vecchia maniera la sequenza del pedinamento), per poi travestirsi da legal thriller prima di tuffarsi nella spy story con sottotesto politico: terreni dove Spielberg si muove agile affidandosi al fidatissimo Tom Hanks. Lasciando però al laconico Mark Rylance (candidato due volte – per questo film e per una serie tv – ai Golden Globes 2016) ricami e spigolature.