The Post: è la stampa bellezza!
<La stampa serve chi è governato, non chi governa>.
Non credete a me, che sono stramaledettamente di parte: ma credete a lui, che ha vinto 3 Oscar, ha fatto volare alieni e biciclette, ha guardato negli occhi squali ed eroi, truffatori e presidenti. Credete a lui, che sa (e ha dimostrato) che <la qualità porta profitto>. E che non teme smentita quando dice che <i giornalisti, grazie alla libertà di stampa, sono i guardiani della democrazia>. Credete a Steven Spielberg, 71enne american dreamer che, dopo <Il ponte delle spie>, rilegge ancora la storia recente portando stavolta il suo salutare idealismo in redazione - tra taccuini, lynotipe, maniche arrotolate di camicie spesso a righe, telefoni a disco che non smettono di squillare e tv in bianco e nero perennemente accese -, nel passato presente di chi stanco di leggere notizie sfidò il potere cominciando a scriverle: <Se non le facciamo noi le domande scomode chi le farà?>.
Nel '71 del falco Nixon, la storia verissima e altrettanto emblematica di Katharine <Kay> Graham, l'elegante signora che mise fine al tempo delle menzogne: la prima donna (in un mondo totalmente dominato dagli uomini) proprietaria di un quotidiano importante come il Washington Post. Sempre a rincorrere il ben più quotato New York Times, il giornale della capitale ha però l'occasione di farsi prendere sul serio da tutti, alte sfere comprese, grazie all'inchiesta sui Pentagon papers, una bomba che può portare alla luce decenni di bugie sulla guerra in Vietnam. Documenti top secret su cui, seppure dopo il Times, mette le mani anche il coraggioso direttore del Post Ben Bradlee. Pubblicarli però potrebbe costare carissimo sia a lui che a Kay...
Classico e civile, orgogliosamente dalla parte giusta, <The Post>, che inizia come un war movie, prosegue come una spy story e poi si diverte a toccare le corde del thriller come quelle del cinema politico, ha il grande merito di essere un film (nonostante si svolga quasi mezzo secolo fa) doppiamente attuale: da una parte per la rivendicazione del ruolo delle donne e la denuncia di un sistema che le voleva (e ancora in certi casi le vuole) parte dell'arredamento, soprammobili muti che non si immischino nei <giochi> degli uomini; dall'altra per la grande battaglia per la libertà di stampa, nuovamente minacciata ai giorni nostri da un potere a cui piacerebbe imbavagliarla, silenziarla. Due binari su cui la pellicola di Spielberg (una sorta di prequel di <Tutti gli uomini del presidente>...), candidata a 2 Oscar (miglior film e migliore attrice), viaggia con profitto contemporaneamente, lasciando che la grande agilità della macchina da presa (i piani sequenza, le riprese dall'alto, quei movimenti <spezzati> eppure morbidi) riscatti il rischio di una certa teatralità della messa in scena. Celebrando, infine, senza deludere le aspettative, l'incontro tra due mostri sacri del cinema moderno come Meryl Streep - enorme anche nei dubbi e nelle umane insicurezze del suo personaggio - e Tom Hanks. Paladini di un film urgente e necessario che ha grandi ma non ostentati momenti: come quando la rotativa si mette in moto e la redazione trema, scrivanie, sedie, tutto. Come un terremoto capace di fare crollare un castello di bugie, come il segnale che indietro no, non si torna.