Foglie al vento, la favola romantica e cinefila di Kaurismaki
Il calendario recita 2024, e pazienza se, così come i telefoni, le radio sono d'epoca: appena fai per accenderle, gracchiano tutte la stessa cosa. L'Ucraina, la Russia, gli attacchi, i morti: «Maledetta guerra», chiosa la protagonista. Anche lei, intimamente lo sa: se qualcosa ci salverà sarà solo l'amore.
E' una deliziosa favola romantica, chapliniana sino al midollo, lieve e ultracinefila (le citazioni, da Godard, omaggio al maestro morto mentre erano in corso le riprese, a «Rocco e i suoi fratelli», passando per Jarmusch, si sprecano e sono sempre a fuoco, affettuose, ispirate) quella che Aki Kaurismaki, un tizio che vorresti sempre accanto in un bar o in un cinema, ha portato, come un dono, in questo altrimenti sciatto Natale, conquistandoci per l'ennesima volta con quel suo tono surreale da cinema muto, il melò stralunato, l'ambientazione vintage, lo stile riconoscibilissimo, inconfondibile.
Una commedia happysad, sorretta dalla solita ironia rarefatta ma sempre efficacissima, «Foglie al vento» (Premio della giuria a Cannes, due candidature ai Golden Globes, nella short list degli Oscar) che, sulle note di brani celebri cantati in finlandese (anche «Mambo italiano»...), racconta dell'incontro tra due solitudini: lui, depresso perché beve («e allora perché bevi?». «Perché sono depresso»), perde un lavoro dopo l'altro, lei, impiegata al supermercato, vive in un piccolo appartamento: si incontrano, si perdono, si ritrovano...
Nel mezzo c'è tanto cinema (tenue, divertente, poetico, mai banale) e altrettanto amore appassionato per l'umanità, meglio se fallata, irregolare, depressa, disfunzionale, tenera. E un regista, che nella vita ha fatto anche il lavapiatti e il palombaro, che ci mette una leggerezza che appartiene a pochi se non a pochissimi e la malinconia di chi, nonostante tutto, ha ancora fiducia nel domani. Che è quel posto dove vai a piedi, mano nella mano e con un cane che si chiama Chaplin.
Adagio: balordi, reduci e fantasmi. La Roma criminale di Sollima
Si regge da solo sulle gambe e tiene botta ma non fa quel passetto in più. «Adagio» dell'italiano Stefano Sollima che chiude la trilogia (iniziata con «Acab» e proseguita soprattutto con «Suburra») di Roma criminale, girando un film di reduci dove tira un po' un'aria da ultima partita, di tempi supplementari.
In una capitale-babilonia rovente, divorata dalle fiamme e dal caos, madre e matrigna sempre sull'orlo della fine del mondo, un film notturno e maledetto che segue le orme incerte di Manuel, un sedicenne ricattato da tre carabinieri corrotti: vittima sacrificale di un gioco più grande di lui, il ragazzo per salvarsi proverà a rivolgersi a due ex malavitosi, amici dell'anziano padre che ormai (ma è davvero così?) perde colpi...
Thriller sudato pieno di fantasmi e di balordi all'ultimo stadio, comparse a mano armata di una Roma, incancrenita e venduta, colta in un black out morale, «Adagio» ci mette un po' a carburare, ma poi, sulle note dei Subsonica, va in cerca (con Toni Servillo, Adriano Giannini, Valerio Mastandrea, Francesco Di Leva e un irriconoscibile Pierfrancesco Favino) di una redenzione impossibile, inseguendo tra sparatorie in stazione (bella e concitata la sequenza della resa dei conti) e cul de sac un altro giro in giostra.
Come spesso in Sollima i personaggi (antieroi declinanti sul viale del tramonto) sono più interessanti della storia e di una dimensione narrativa ma anche estetica un po' stravista: ma mentre Roma brucia c'è ancora tempo per vivere e morire.
Ferrari, vita e mito di un uomo chiamato Drake
Era tormentato dai fantasmi, minacciato (non a torto) arma in pugno dalla moglie, sommerso dai debiti, denigrato dai giornali: e tutte le mattine le passava in lacrime davanti alla tomba del figlio morto. Un cinico, ossessionato dal trionfo, umanamente discutibile: ma pur sempre un mito. Forse anche perché conosceva bene e da vicino «la terribile gioia», quella passione letale che, nella curva del tempo, non ti fa alzare il piede dall'acceleratore, ti fa scordare del freno: che vincere, se non lo sai, è anche un po' morire.
Proprio lui, il commendatore, l'ingegnere, quello che gli inglesi chiamavano «Drake»: Enzo Ferrari da Modena, genio visionario e ferocemente tenace così come lo racconta, in un ritratto intimo e fuori dalla leggenda, Michael Mann che sullo schermo porta il suo progetto più sofferto (ci pensava da più di 20 anni: nel frattempo è morto il co-sceneggiatore e il protagonista è cambiato tre volte), allontanandosi dal biopic più convenzionale (nascita, morte ed eventuali miracoli) per concentrarsi invece su un anno cruciale per il patron del Cavallino, il 1957.
Ferrari ha appena sepolto il figlio Dino, ne ha un altro (Piero) fuori dal matrimonio di cui la moglie (e socia) non sospetta l'esistenza e i conti dell'azienda sono in rosso; per rilanciarsi - e trovare capitali freschi - è convinto ci sia una sola strada: vincere la Mille Miglia.
La liturgia (e la maledizione) della velocità, ma anche la grande tragedia dell'ambizione, in questo «Ferrari» all'americana (ma girato in Emilia) che flirta con la tradizione del melodramma italico per raccontare la figura «bigger than life» di un uomo che non voleva mai arrivare secondo, dalla vita di corsa segnata dai lutti, fenomeno senza pari capace di fare aspettare un re ma, come Saturno, anche di «divorare» i suoi figli e i suoi piloti.
Nel ruggito di bolidi di un'altra epoca, nella loro linea futurista, Mann si mette alla guida di un film sin troppo classico e afflitto da fictionite acuta (l'Italia da sceneggiato è sempre dietro l'angolo) ma anche adrenalinico e emozionante nelle sequenze (montate benissimo da Pietro Scalia) delle gare, costruendo un ritratto vivo (complice anche l'interpretazione di Adam Driver, subentrato a Christian Bale e a Hugh Jackman) di un uomo che non conosceva la retromarcia.
Palazzina Laf, Riondino nel ghetto dell'Ilva del mobbing
Nell'aria avvelenata dell'Ovest, dove il tempo sembra essersi fermato per sempre e la notte all'orizzonte brilla delle luci e dei fumi del mostro Ilva - fabbrica cannibale «che si prende tutto» -, un film politico e - ben venga - di parte sui reietti e gli esiliati della Palazzina Laf, il ghetto immobile di chi osò dire no, e venne costretto al silenzio e all'emarginazione, spedito al confino, chiuso a chiave in una gabbia di noia e di nulla dove il tempo non passava mai.
Ha una bella faccia da cinema civile, e muri scrostati, tute da lavoro, stereo che non funzionano più, il debutto da regista - di paradosso, rabbia e tosse - di Michele Riondino che sullo schermo porta il primo caso di mobbing in Italia, quando ancora nemmeno si chiamava così. Una storia emblematica, tanto assurda quanto vera, di apartheid aziendale, ambientata nella Taranto di fine anni '90, ma che gronda contemporaneità là dove, nella truffa degli esuberi e dei demansionamenti, vanno in scena le famose riorganizzazioni aziendali dove un ingegnere magari finisce a fare l'operaio...
Tarantino, da sempre in prima linea nella «questione Ilva» (dove peraltro hanno lavorato a lungo suo padre e suo zio), Riondino - che si ritaglia il ruolo scomodo di un Giuda (in)consapevole che «tiene famiglia» e tira a campare, spia pronta a tradire i colleghi in cambio di una presunta promozione (da parte del dirigente interpretato da Elio Germano) -, guarda a Petri, scegliendo un'angolazione originale, raccontando situazioni di per sé incredibili e grottesche (i dipendenti «sgraditi» o «disubbidienti» erano pagati per non fare nulla tutto il giorno, magari dove non c'erano nemmeno abbastanza sedie per tutti...) con un felice tocco di ironico surrealismo. Che non rendono però meno amaro lo sguardo su una realtà che non conosce riscatto.
Woody Allen c’è: Un colpo di fortuna
E' davvero un «Coup de chance», un gran colpo di fortuna: sia che questo ragazzino di 87 anni continui senza sosta a fare film (siamo al numero 50! E speriamo, anche se lui tentenna, che non sia l'ultimo), sia che in giro, tra molta mediocrità, ci sia gente come lui capace ancora di dimostrare che la classe non è acqua. Perché il cinema di Woody Allen, rispetto a quello che si vede in giro, assomiglia a uno che a una festa si presenta in completo Armani mentre gli altri ci vanno in infradito.
Raffinato, très chic, molto charmant e altrettanto acuto, il primo film in lingua francese del maestro americano si immerge nella splendida fotografia dorata di Storaro per raccontare, con sottofondo jazz, la grande farsa sinistra della vita. Là dove, mentre le foglie morte - come scriveva Prévert - cadono a mucchi come i ricordi e i rimpianti, siamo solo pedine inconsapevoli nel gioco ingannevole del destino.
Parigi, oggi: Fanny, ex ribelle e sognatrice che alla lunga si è imborghesita, è sposata con il facoltoso Jean, un uomo che non crede alla fortuna, più appassionato ai trenini elettrici che alla poesia, che di mestiere rende più ricco chi già lo è: ma la donna, giovane e bella, incontra un giorno un ex compagno di classe, uno scrittore che cita Mallarmé e le confida di essere sempre stato innamorato di lei...
All'ombra di Simenon (anche citato), un romantico triangolo che sfocia nel noir: un bellissimo film sul caso (e su quello che si è, si è stati e si resta sempre) che si aggira in zona «Match point» (dove già la sorte aveva un ruolo più che decisivo) tra chiacchiere da upper class (il vuoto cosmico della ricchezza a cui il regista oppone la poesia dell'arte e del sentimento) e delitto e castigo. Sottile nell'intrigo, divertito e acuminato, Woody, complice un terzetto di interpreti molto bravi e in sintonia con il regista (se Melvil Poupaud, caro a Ozon, era una certezza, Lou de Laâge afferra il ruolo che può cambiarle la vita), gioca di fino, sgusciando tra coincidenze che non sempre lo sono, lasciando che l'amaro prevalga nettamente sul dolce.
Permettendosi però il lusso di un clamoroso colpo di scena degno di un deus ex machina: più che la ciliegina, la torta di autore straordinario che sa che il miracolo di vivere, di essere al mondo, non va sprecato. Né sottovalutato.