Palazzina Laf, Riondino nel ghetto dell'Ilva del mobbing
Nell'aria avvelenata dell'Ovest, dove il tempo sembra essersi fermato per sempre e la notte all'orizzonte brilla delle luci e dei fumi del mostro Ilva - fabbrica cannibale «che si prende tutto» -, un film politico e - ben venga - di parte sui reietti e gli esiliati della Palazzina Laf, il ghetto immobile di chi osò dire no, e venne costretto al silenzio e all'emarginazione, spedito al confino, chiuso a chiave in una gabbia di noia e di nulla dove il tempo non passava mai.
Ha una bella faccia da cinema civile, e muri scrostati, tute da lavoro, stereo che non funzionano più, il debutto da regista - di paradosso, rabbia e tosse - di Michele Riondino che sullo schermo porta il primo caso di mobbing in Italia, quando ancora nemmeno si chiamava così. Una storia emblematica, tanto assurda quanto vera, di apartheid aziendale, ambientata nella Taranto di fine anni '90, ma che gronda contemporaneità là dove, nella truffa degli esuberi e dei demansionamenti, vanno in scena le famose riorganizzazioni aziendali dove un ingegnere magari finisce a fare l'operaio...
Tarantino, da sempre in prima linea nella «questione Ilva» (dove peraltro hanno lavorato a lungo suo padre e suo zio), Riondino - che si ritaglia il ruolo scomodo di un Giuda (in)consapevole che «tiene famiglia» e tira a campare, spia pronta a tradire i colleghi in cambio di una presunta promozione (da parte del dirigente interpretato da Elio Germano) -, guarda a Petri, scegliendo un'angolazione originale, raccontando situazioni di per sé incredibili e grottesche (i dipendenti «sgraditi» o «disubbidienti» erano pagati per non fare nulla tutto il giorno, magari dove non c'erano nemmeno abbastanza sedie per tutti...) con un felice tocco di ironico surrealismo. Che non rendono però meno amaro lo sguardo su una realtà che non conosce riscatto.