Festival, Recensione, 2024 Filiberto Molossi Festival, Recensione, 2024 Filiberto Molossi

Iddu, un puzzle chiamato Matteo Messina Denaro

Leggeva le Ecclesiaste, citava abitualmente i classici e sapeva sedurre: ma era completamente privo di senso dell'ironia e si rifiutava di vedere il figlio, riempiendo il tempo «libero» a comporre puzzle dove mancava sempre un pezzo: l'ultimo. E anche se il suo nome lo conoscevano tutti, si guardavano bene dal pronunciarlo: perché lui, nella terra dei templi e dei pizzini, era semplicemente «Iddu».

Dopo due film nitidi e riusciti, seppure di nicchia, come «Salvo» e «Sicilian ghost story», Fabio Grassadonia e Antonio Piazza fanno il grande salto nel cinema «mainstream» senza perdere la voce, nitida e originale, degli autori che sono sempre stati, imprigionando sullo schermo - con una gran bella intuizione di scrittura - l'ex nemico pubblico numero uno, Matteo Messina Denaro.

Liberamente ispirato alla corrispondenza tra il re di Cosa Nostra e l'ex sindaco di Castelvetrano (di dominio pubblico grazie al libro «Lettere a Svetonio»), «Iddu» è una commedia nera - dove la realtà «non è la destinazione ma la partenza» - che nel ridicolo trova la forza per rendere più credibile e feroce il tragico, raccontando l'incontro a distanza tra due uomini soli: il boss dei boss, costretto a vivere da recluso, nascosto agli occhi del mondo, temuto e riverito ma in perenne fuga (anche dai ricordi) e un vecchio amico del padre, Catello, relitto della prima repubblica, politicante disonesto e al verde reduce da sei anni di carcere a Cuneo. È proprio a quest'ultimo che si rivolgono i servizi segreti affinché li porti nel covo del capo della mafia...

Costruita con attenzione sottile alle relazioni tra i vari personaggi, fra flashback rivelatori (centrale l'intenso rapporto tra il boss e il padre, la cui morte dà in pratica inizio al film) e momenti di ordinaria latitanza, la pellicola, ambientata nella Sicilia che chiude le persiane sulla realtà mentre il parastato pesca nel torbido e lavora nell'ombra, trova in Elio Germano (Messina Denaro) e Toni Servillo (Catello) due protagonisti strepitosi.


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Palazzina Laf, Riondino nel ghetto dell'Ilva del mobbing

Nell'aria avvelenata dell'Ovest, dove il tempo sembra essersi fermato per sempre e la notte all'orizzonte brilla delle luci e dei fumi del mostro Ilva - fabbrica cannibale «che si prende tutto» -, un film politico e - ben venga - di parte sui reietti e gli esiliati della Palazzina Laf, il ghetto immobile di chi osò dire no, e venne costretto al silenzio e all'emarginazione, spedito al confino, chiuso a chiave in una gabbia di noia e di nulla dove il tempo non passava mai.

Ha una bella faccia da cinema civile, e muri scrostati, tute da lavoro, stereo che non funzionano più, il debutto da regista - di paradosso, rabbia e tosse - di Michele Riondino che sullo schermo porta il primo caso di mobbing in Italia, quando ancora nemmeno si chiamava così. Una storia emblematica, tanto assurda quanto vera, di apartheid aziendale, ambientata nella Taranto di fine anni '90, ma che gronda contemporaneità là dove, nella truffa degli esuberi e dei demansionamenti, vanno in scena le famose riorganizzazioni aziendali dove un ingegnere magari finisce a fare l'operaio...

Tarantino, da sempre in prima linea nella «questione Ilva» (dove peraltro hanno lavorato a lungo suo padre e suo zio), Riondino - che si ritaglia il ruolo scomodo di un Giuda (in)consapevole che «tiene famiglia» e tira a campare, spia pronta a tradire i colleghi in cambio di una presunta promozione (da parte del dirigente interpretato da Elio Germano) -, guarda a Petri, scegliendo un'angolazione originale, raccontando situazioni di per sé incredibili e grottesche (i dipendenti «sgraditi» o «disubbidienti» erano pagati per non fare nulla tutto il giorno, magari dove non c'erano nemmeno abbastanza sedie per tutti...) con un felice tocco di ironico surrealismo. Che non rendono però meno amaro lo sguardo su una realtà che non conosce riscatto.

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America Latina, l'orrore di un'epoca senza memoria

Denti, occhi mandibole: e volti, facce che riempiono lo schermo. Quelle facce di un'epoca senza memoria, di una nuova borghesia che nasconde la polvere sotto lo zerbino e chiude a chiave i peccati in cantina, seppellendoli sotto cumuli di non detto. C'è l'orrore insostenibile della famiglia perfetta nel nuovo film dei fratelli D'Innocenzo, «America Latina», che dopo «Favolacce» portano il loro cinema del non luogo (tra ville senz'anima con piscine a forma di barca, bar isolati, studi dentistici...) a giocare con i generi. Ma dopo due ottime prove (oltre a «Favolacce», l'ispirato esordio de «La terra dell'abbastanza») i gemelli di Tor Bella Monaca qui si fermano a un'idea, incapaci di dare sostanza soprattutto narrativa a un film, patologico e angosciante, che non riescono a elaborare né a fare davvero evolvere. C'è materiale al massimo per un corto in «America Latina», storia di Massimo (Elio Germano), una moglie e due figlie, famiglia benestante a Sud della capitale. Tutto bene, insomma: fino a quando andando in cantina fa una scoperta sconcertante...

Partito col piede giusto, il film, poco scritto e con qualche estetismo in eccesso, per quanto scomodo e personale, dimostra presto di avere il fiato corto, si disunisce in episodi poco utili (l'incontro del protagonista col padre) e, divorato dal sospetto, invece di lasciarsi marcire sulla cattiva coscienza di uno stato di calma apparente, si arrampica senza unghie lungo la deriva della follia, col rischio di fare aleggiare il fantasma di «The Others» in una poco felice reinterpretazione del gotico.

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