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Jurassic World: io sto coi dinosauri

Una cosa è certa: ci si dispiace più per la morte dei dinosauri che per quella dei cristiani. Il che è anche un passo avanti nelle dinamiche di una saga che scopre un'accesa vocazione animalista mostrando, con rigurgito etico, i denti dell'horror alle follie della genetica: anche perché qui, a forza di esprimenti idioti, l'unico che meriterebbe di estinguersi è proprio l'uomo... Chiaro, ci si diverte con <Jurassic World-Il regno distrutto>: la definizione (anche <sentimentale>) dei <bestioni> è sempre più curata, la tensione e gli spaventi non mancano, il ribaltamento narrativo (qui sono T-Rex e C a rischiare la vita ancora più che l'allegra compagnia di scienziati, magnati e avventurieri...) fa pensare alla riabilitazione degli indiani (a discapito dei cowboy) di certi western. Il rischio, piuttosto, è quello di cadere nella sindrome de <Lo squalo> (capolavoro il primo, poi da lì in poi un po' sempre la stessa menata) o, peggio, nell'effetto goliardico tipo <Una notte al museo>. Bayona, regista di <The impossible>, dimostra di avere un certo feeling con il catastrofico, anche se in certe trappole ci finisce con tutte le scarpe, prestando maggiore attenzione ai suoi giganti preistorici che a personaggi unidimensionali che fanno invariabilmente sempre la stessa cosa. Punta al survivor, ma a volte giochicchia un po' troppo, perdendosi in numeri da domatore.

Un prologo ultra spettacolare (anche se già ampiamente in zona fumetto) apre la strada al quinto capitolo della serie, che si riallaccia direttamente al film di 4 anni fa: un vulcano minaccia l'esistenza dei dinosauri superstiti alla distruzione del parco Jurassic World. Jeff Goldblum, tornato (con barba) nel franchise dopo 21 anni, lascerebbe volentieri che la natura facesse il suo corso. Ma Claire e Owen, coppia già scoppiata, partono per una missione di salvataggio: che non è esattamente quello che credono...

Ora, la trama in sé è abbastanza irrisoria se non fosse per il cambiamento radicale del punto di vista (salvereste a ogni costo delle creature spaventose che vorrebbero mangiarvi in un sol boccone?) che non limita comunque il concitato fuggi fuggi generale, contribuendo allo stesso tempo a spalancare nuovi scenari. Bene a corrente alternata nella prima parte dove c'è un che di adventure anni '40, <Jurassic World 2> si mostra molle nell'intermezzo centrale (che porta in auge caricaturali cattivi da operetta), recuperando nel finale dove è tana libera tutti, prodromo di nuove, interessanti (basta non ne facciano l'ennesimo <Godzilla>...), sfide. Con un territorio di caccia, un campo di battaglia, ampio e inedito: il mondo.

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Il GGG: con il gigante Spielberg la magia porta speranza

E' un signore che a 25 anni dirigeva <Duel> e quando non ne aveva ancora compiuti 30 <Lo squalo>. Un tizio che ha vinto due Oscar come miglior regista, uno che ha raccontato e fatto la Storia: e ha messo le ali anche alle biciclette. Uno che se dovesse spiegare cosa vuole fare adesso direbbe così: <Quello che faccio sempre: cercare una bella storia. Comincia tutto da lì>. Ama i sogni, ma anche le favole, Steven Spielberg che, sceso da <Il ponte delle spie>, ha girato con <Il GGG-Il grande gigante gentile> <una storia sull'abbracciare le differenze>.

Tenero incontro tra due diversi, un gigante buono (e vegetariano...) e un'orfanella, esclusi e rifiutati dalle rispettive <società>, lei sola e insonne nel mondo crudele degli uomini, lui, mosca bianca nella tribù dei mangiatori di bambini (tranquilli: non ci sono riferimenti politici...), il film è la trasposizione per lo schermo (ultimo lavoro della sceneggiatrice Melissa Mathison, recentemente scomparsa) di un classico (più nei Paesi anglosassoni che da noi a dire il vero) di Roald Dahl (lo stesso de <La fabbrica di cioccolato> e <James e la pesca gigante>), di cui coglie la magia rendendola tangibile.

Tutto giocato sulle dimensioni (grazie alla performance capture, Mark Rylance, premio Oscar per <Il ponte delle spie>, si trasforma in un cortese omone alto 7 metri) e sul lirismo di un <mostro> che non è tale, il film è però decisamente vietato ai maggiori di 12 anni anche se finirà per commuovere pure qualche adulto: il regista di <Salvate il soldato Ryan>, al primo film con la Disney, sa divertire (l'incontro del gigante con la regina di Inghilterra), ma non affila troppo le armi. Ribadendo però che la magia porta speranza: <E per me la speranza è tutto>.

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Quell'uomo tutto di un pezzo sul Ponte delle spie

E’ gente così: uomini tutti d’un pezzo. Che più li colpisci, più li cacci per terra, più loro si rialzano, si rimettono in piedi. Uomini ordinari che a volte fanno cose straordinarie: rischiando in proprio, solo perché ci credono. O perché, semplicemente, è giusto. Metteteci il bimbo di «E.T.», lo sceriffo de «Lo squalo», Schindler certamente, ma anche il combattivo avvocato di «Amistad», il capitano che salva il soldato Ryan e il presidente Lincoln: poi alla lista aggiungete James B. Donovan, l’eroe borghese de «Il ponte delle spie». Vi diranno che questo è un film sulla guerra fredda, sulla paranoia americana del pericolo rosso, un avvincente girotondo di segreti che si nutrono dell’ombra. Non fa una piega. Ma più di tutto è una pellicola sull’integrità morale (che no, non è in vendita su Ebay), sul rispetto della legge (anche quando non ci piace), sui valori fondanti di un’etica che ci fa dire (e sapere) che «ogni uomo è importante». Né un thriller né un film storico, almeno non solo, questo «Bridge of spies»: ma la celebrazione, complice una storia vera, dell’eroe spilberghiano per eccellenza, il buon padre di famiglia scolpito nel marmo, mai arrendevole, legalitario, consapevole dei diritti e dei doveri alla base della democrazia e della civiltà: e non per questo meno umano o meno spaventato. Ma sicuro sin da subito da che parte stare: che poi è quella dell’onore e della lealtà.
Uno come Donovan, appunto: avvocato delle assicurazioni a cui tocca in sorte di difendere niente meno che una spia russa, il colonnello Abel. Tutti lo vogliono morto: lui invece, guadagnandosi il disprezzo di molti, riesce a evitargli la sedia elettrica. Una mossa che si rivelerà vincente quando, nel ‘62, Donovan verrà reclutato dal governo per scambiare Abel con un pilota della Cia abbattuto nella Germania Est. 
Ambientato nella Berlino appena divisa (e lacerata) dal Muro, molto classico ma altrettanto ben fatto, attento nella ricostruzione (esaltata dalla fotografia vintage di Kaminski), «Il ponte delle spie», scritto (con Matt Charman) dai fratelli Coen, brilla subito in apertura (da manuale della vecchia maniera la sequenza del pedinamento), per poi travestirsi da legal thriller prima di tuffarsi nella spy story con sottotesto politico: terreni dove Spielberg si muove agile affidandosi al fidatissimo Tom Hanks. Lasciando però al laconico Mark Rylance (candidato due volte – per questo film e per una serie tv – ai Golden Globes 2016) ricami e spigolature. 

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