Joker: folie à deux, il volto dietro la maschera
«Farò saltare tutto».
E per prima cosa il banco. Sul tavolo verde di Hollywood, il cinema pesca dal mazzo ancora una volta la «matta». Il Joker, col vostro permesso, rilancia: anzi, raddoppia.
Parte molto bene il sequel del film che nel 2019, sovvertendo le regole del gioco e portando il cinecomix a una dimensione (e a una sofferenza) autoriale, scorsesiana, vinse il Leone d'oro a Venezia: inizia davvero col botto, con un gran carico di promesse (poi in realtà non tutte mantenute), grazie un intelligente prologo animato (di Sylvain Chomet, «Me and my shadow») sul tema del doppio (l'ombra che ci portiamo dentro, che poi è l'essenza stessa e dichiarata del film) e muovendo primi passi di marziale gravità.
Per poi inseguire un'audace commistione e sovrapposizione di generi, passando filone carcerario, dramma processuale e love story al setaccio (un rischio non completamente calcolato) del musical, trovando rifugio in canzoni che non possono però rendere meno traumatico e amaro un film girato benissimo da Todd Phillips, ma mai particolarmente (perché davvero succeda qualcosa di «grosso» bisogna aspettare due ore, cioè l'epilogo...) appassionante.
Sì perché tra primissimi piani, esplosioni di violenza e abusi, «Joker: folie à deux» nel cercare una via di fuga (da sé o dall'«altro in sé», più che dal carcere) nel sogno impossibile (romantico e melodrammatico) di un prigioniero, fatica a ritrovare la potenza e lo schiaffo del film-matrice, di cui replica l'atmosfera sinistra e dolente: ma l'idea di fare ballare stretti - nel raramente esaltante restyling di canzoni note o notissime - due mondi opposti come l'ovviamente claustrofobico e ruvido prison movie e il musical, alato e liberatorio, non si rivela particolarmente funzionale e appesantisce, «lega», anzi l'aspetto emozionale di un cinema scisso.
Resta però forte (e urgente) - una volta detto della solita interpretazione «monstre» di Joaquin Phoenix (che in questi stessi panni vinse l'Oscar) e della voce e del carisma della new entry Lady Gaga -, la riflessione di Phillips sulla celebrità e soprattutto sulla fascinazione che la fama esercita sugli altri, su tutti: innamorati sempre della maschera e mai del volto (spesso sofferente) che ci sta dietro.