Dalla Russia senza amore: Loveless, il presente è un edificio in rovina
E' un edificio abbandonato, in rovina, dove piove dentro, un fantasma di cemento che muore un giorno dopo l'altro, lurido e sopravvissuto a chissà quali <guerre>, pieno di tracce di vita passata o solamente di passaggio, il presente (così come lo conosciamo: noi, gli altri, tutti) secondo il russo Andrey Zvyagintsev, che con <Lovless> - lucida e amarissima fotografia dell'istituzione famiglia e, insieme, di un intero Paese - gira un bellissimo film pieno di rancore e disillusione dove un'umanità schiava dei selfie e della routine, in cerca di amore ma incapace di amare, attende indifferente la fine del mondo. Che per una coppia che si sta separando malamente, tra urla, amanti incinta e ripicche, arriva nel momento in cui il figlio 12enne (da sempre un peso per entrambi...) non si trova più. Scomparso nel nulla.
Tra gli autori in assoluto più lucidi e ispirati nel leggere le pieghe irrisolte del contemporaneo, con una capacità pressoché unica di riconoscere nel privato l'universale e di cogliere, allo stesso tempo, la portata inequivocabilmente politica di un evento (e di un dramma) apparentemente solo intimo, personale, Zvyagintsev (il grande, grandissimo, regista de <Il ritorno>, l'indimenticabile film di debutto con cui vinse il Leone d'oro a Venezia, e di <Leviathan>) dà qui, con piani sequenza e movimenti lenti e calibratissimi a entrare, l'ennesima conferma del suo talento scomodo e rigoroso: con il quale spinge nell'abisso che siamo due personaggi sgradevoli, odiosi nel loro egoismo, smarriti e persi quanto e più di quel figlio che ora sono costretti a cercare.
Tra aziende che licenziano chi divorzia e i bagliori della guerra civile in Ucraina che infiamma tv sempre accese, <Loveless>, premiato a Cannes e ora in corsa per il Golden Globe (e per l'Oscar, essendo stato inserito nella shortlist per il miglior film straniero), racconta in modo potente e non conciliante un mondo senza amore, ampliando il discorso sulla famiglia (uno dei grandi nodi dell'intera produzione del regista 53enne) fino a trasformarlo in una parabola, di rovente attualità, sull'animo umano, sulla morte dell'etica, sulla decadenza irrefrenabile dei nostri tempi. Una riflessione che non fa sconti a nessuno, nemmeno al cinema di cui è figlio o fratello.
Perché non c'è redenzione nel dramma esistenziale di Zvyagintsev, ma solo i tempi assurdi della burocrazia, la fredda idiozia delle statistiche. E un palazzo abbandonato, allegoria potente delle macerie morali di una Russia ormai a corto di fiato.
Caino e Abele nelle Ardenne: un debutto sporco e disperato
E' verde marcio, ma di quello che tende al nero, al buio, anche esistenziale: di quel colore acido eppure spento caro anche al cinema di Zvyagintsev e del primo Audiard. Ed è ruvido, senza sole, struccato non solo nella fotografia o nell'ambientazione. Pieno di cicatrici e ciminiere, birre in lattina e tavole calde, pioggia e sigarette, tute (da lavoro, ma anche quella del Milan...) e palazzoni. Là dove ti scopri a desiderare una vita noiosa, ben sapendo che la più banale normalità è un lusso che nessuno sembra possa permettersi. Non qui nella grigia Anversa, non nelle Ardenne. Territorio di caccia del debutto scavato e livido del belga Robin Pront, 31enne autore di un noir disperato e sporco, martellato dalla techno nel suo biblico infangarsi.
Un film duro, segnato, prevalentemente notturno, che racconta il ritorno a casa di Kenny, dopo 4 anni di galera dove ha tenuto la bocca chiusa: senza tradire la sua donna né il fratello Dave, suoi complici in una rapina costata cara solo a lui. Ma il tempo passa e la gente cambia: il fratellino ha rinunciato alla bottiglia, la fidanzata ha chiuso con la droga. Quello che Kenny non sa, però, è che i due, in sua assenza, si sono anche messi insieme...
La dinamica, evidentemente, è stranota e prende il via da un intreccio (due fratelli innamorati della stessa donna) non certo inedito: ma Pront, facilitato anche dal contesto proletario, privo di facili orizzonti, dimostra mano ferma e discreto stomaco nell'affrontare con i suoi Caino e Abele il viaggio fino al termine della notte. Coen e Tarantino (citati da più parti) sembrano onestamente tirati in ballo a sproposito: ma il giovane regista, che sule spalle si carica un bagaglio di illusioni assai leggero, ha un suo gusto del paradossale. Che riscatta, almeno parzialmente, le tappe obbligate di un cupo dramma morale – tratto da una piece teatrale di Jeroen Perceval (che interpreta Dave) - diviso in due movimenti: una prima parte, tesa, arrabbiata, che sembra pericolosamente seduta su una polveriera e una seconda deflagrante, violenta, non priva di sorprese. Scelto dal Belgio per rappresentarlo nella corsa all'Oscar per il miglior film straniero (ma non è riuscito a entrare nella cinquina), <Le Ardenne> è in definitiva l'esordio tosto e ben recitato (lei, Veerle Baetens è la stessa di <Alabama Monroe>) di un autore che non ha paura di sporcarsi le mani.
Cannes 70: il pagellone
Ecco, a freddo, il nostro pagellone della settantesima edizione del Festival di Cannes, che si è appena concluso. Film, divi e di tutto un po': promossi e bocciati della Croisette 2017.
NICOLE KIDMAN 9
Già data per morta più di una volta risorge in Costa Azzurra più bella e bionda che mai: diva assoluta della rassegna, "sbotulinizzata" e fresca come una rosa, è presente in 4 film e in tutti fa sempre un'ottima figura. Alla fine, le devono inventare un premio apposta per ringraziarla in qualche modo.
GLI ITALIANI 7
Decisamente meglio del previsto: fuori dal concorso, raccolgono premi con A ciambra e Fortunata e ulteriori consensi con Sicilian ghost story, Cuori puri e L'intrusa. L'unica delusione arriva da Dopo la guerra.
IL PALMARES 7-
Non male, ma si poteva fare pure meglio: The square è un davvero buon film, concepito con uno sguardo originale (anche se dello stesso autore preferiamo Forza maggiore), ma forse Loveless avrebbe meritato qualcosa di più. E il film di Loznitsa una citazione.
LE DONNE REGISTE 7,5
Se ne è parlato tanto: poche donne registe, poche donne al potere nel cinema. Le quote rose si fanno largo anche qui. E in un'edizione venata di femminismo, la Coppola , la Ramsay e la Kawase, l'altra metà del cielo in gara, hanno fatto vedere cose buone se non ottime.
JOAQUIN PHOENIX 8
Col martello in mano nel sorprendente You were never really here è subito cult. Poi quando non si accorge che hanno premiato lui (sì, proprio te Joaquin) e resta un minuto seduto tra il sorpreso e l'esterrefatto è addirittura apoteosi.
MARINE VACTH 7,5
Un collega dice che d'accordo essere belle, ma che lei è oltre: sì insomma, non ci sarebbe gara. Effettivamente, nell'ultimo Ozon, nuda più che può, è folgorante e sexy in modo esagerato. Peccato che il film funzioni fino a lì.
IL CASO NETFLIX 5
La polemica aveva già stancato prima di cominciare: mettono due film del colosso Web in concorso, poi si pentono, poi ancora dicono che non li premieranno. Molto rumore per nulla: di Okja si poteva farne a meno, The Meyerowitz stories è buono ma già visto.
DIANE KRUGER 7,5
Al primo film tedesco (lei che, tedesca di nascita, in Germania non aveva mai girato) è subito Palma. La sua lady vendetta nel film di Akin è sofferta e struccata a sufficienza per rappresentare la prova della maturità.
I FRATELLI SAFDIE 5,5
Promossi come i nuovi geni del cinema indipendente americano, in realtà non è che combinino moltissimo con Good time: grande inizio e ottimo finale. Ma in mezzo?
L'AMBIENTE 5
Già l'ansia per gli attentati e gli allarmi bomba non metteva di buon umore: che poi ogni film, nessuno escluso, venisse accolto con una grossa dose di insofferenza difficilmente poteva aiutare. Va beh, almeno non è piovuto quasi mai.
120 BATTITI AL MINUTO 7+
Era il preferito dai francesi ed effettivamente è uno dei film più emozionanti del concorso: dedicata all'esperienza di Act Up, movimento di sensibilizzazione sull'Aids nei primi anni '90, ha le caratteristiche per diventra un film manifesto.
RODIN 5-
Già dalla prima inquadratura sembra uno sceneggiato di mamma Rai in prime time, poi andando avanti non migliora di molto: memorabile solo il barbone di Vincent Lindon. Lo stesso che viene agli spettatori dopo dueore interminabili di film.
LA PREVALENZA DEL GORILLA 8,5
La performance dell'attore che si finge gorilla nella cena di gala in The Square, è uno dei momenti più forti dell'intero Festival. Nello stesso film poi c'è chi lo scimmione se lo tiene in casa, invece del cane o del gatto: Ferreri sorride da lassù.
IL TE' DI POLANSKI 7,5
In D'après une histoire vraie, non eccelso thriller sul doppio di Polanki, si beve però il Mariage Frères, tè parigino noto ormai in tutto il mondo: ottima scelta. Quasi quanto il rossetto da batticuore di Eva Green.
I FANTASMI 5
Bene quelli siciliani, ma i fantasmi (della coscienza, del rimorso o della psiche) francesi, anche no: non convince la moglie che riappare dopo anni di Desplechin, ma neanche i doppi fasulli di Ozon e di Polanski.
ANDREY ZVYAGINTSEV 8
Non aiutato dal cognome impronunciabile, il regista russo però si conferma tra i grandi del panorama mondiale: dopo Leviathan, un'altra impietosa fotografia della Russia ( e della famiglia) moderna con Loveless.
IL 70° ANNIVERSARIO 4,5
Per il 60° avevano addirittura eretto una sala nuova, per il 70° si limitano a una rimpatriata tra vecchi amici. Poteva essere l'occasione per una grande festa, ma l'aria, già in partenza, era piuttosto depressa.
JASMINE TRINCA 8
E' la cosa più bella di Fortunata di Sergio Castellitto: bravissima con le zeppe, la ricrescita nera sui capelli biondi, il trucco forte, nella parte di una novella Antigone sola contro il mondo convince tutti. Anche la giuria.
GLI ORIENTALI 5,5
Ritornati in forze in concorso (erano tre) non raccolgono nulla, se non qualche apprezzamento qua e là. Finezza e tecnica ci sono: ma manca il colpo del ko.
ROBERT PATTINSON 7
Lo hanno detto tutti, all'unisono: finalmente una prova convincente dell'ex vampiro idolatrato dalle teenagers. Se Kristen Stewart si era già affrancata dalla saga che li ha resi famosi, lui mostra il meglio di sè nel ruolo dle criminale da strapazzo di Good times.