Recensione Filiberto Molossi Recensione Filiberto Molossi

Un altro giro, la crisi di mezza età in fondo al bicchiere

Questo non è un film sul bere. È un film sui limiti: morali, umani. personali. E non è nemmeno, a guardare bene, un film sull'alcol: ma, piuttosto, sul potere d'attrazione dell'alcol, sul suo fascino «facile» e immediato, sulla sua capacità di aprire la strada verso l'euforia o l'oblio: le medicine più efficaci contro lo stallo di un'esistenza che non sembra più andare da nessuna parte. È bravo Vinterberg e mica da oggi: scomoda Kierkegaard e la natura del fallimento per raccontare, in modo divertente e amarissimo, la sua generazione (50 e più), facendo degli amici miei e della bottiglia gli alcolisti non anonimi di un Paese in costante stato d'ebbrezza, vittime (in)consapevoli dell'inevitabile crisi di mezza età convinte di risolvere i propri disagi affogandoli in un bicchiere dopo l'altro. C'è del marcio in Danimarca, è cosa nota: ma la lezione stavolta è universale così come il cinema del regista de «Il sospetto» che affronta in modo assolutamente originale, stando ben attento a non scadere nella denuncia o nella retorica, una piaga sociale, là dove la dipendenza non è il peggiore dei problemi, quanto la cartina di tornasole di chi cerca disperatamente un alibi alla propria resa o addirittura la giustificazione scientifica ai propri vizi, alle proprie debolezze. Provocatorio, scorretto, «Un altro giro» (Oscar per il miglior film internazionale e una pioggia di Efa), animale raro anche nell'ambito del cinema d'autore, diffida degli astemi (lo era pure Hitler...) e lascia campo libero a Martin (Mads Mikkelsen, bravissimo) e ad altri tre insoddisfatti professori di liceo che decidono di sperimentare su stessi la stravagante teoria di uno psichiatra norvegese secondo cui bere alcol con una certa metodicità migliora la vita. E in effetti i primi risultati sono incoraggianti: i quattro si scoprono più vitali e sicuri di sè, riacquistano fiducia. Ma ci prendono gusto: e finiscono per esagerare... L'alcol come piacere sociale, fuga dalla realtà, consolazione, terapia: in una nazione dove «tutti bevono come pazzi», Vinterberg guarda attraverso il vetro smerigliato del bicchiere la deriva e la caduta di un uomo che, mentre la moglie non ha tempo di ascoltarlo e i figli nemmeno ci pensano, ha perso se stesso, quello che era, quello che non è diventato. E ne fa il simbolo danzante dell'incapacità di dare un esempio alle nuove generazioni, di una comune sconfitta esistenziale, ma anche della necessità di prendersi dei rischi, di ricominciare a vivere, a qualunque costo e in qualsiasi modo.

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2015, Recensione, Festival Filiberto Molossi 2015, Recensione, Festival Filiberto Molossi

Irrational Man: delitto e castigo secondo Woody

Tagliato da pochi giorni, con rassegnato pessimismo ma anche irrefrenabile vitalità (che vuoi dirgli a uno che negli ultimi 34 anni ha girato 36 film?), il traguardo degli 80 anni, l'intramontabile Woody Allen mette di nuovo in scena - non prima di avere scomodato Dostoevskij e Kierkegaard (due vecchi amici di costruttive letture) -, il delitto (im)perfetto, tornando su uno dei suoi territori di caccia preferiti (da <Crimini e misfatti> a <Match point>, da <Scoop> a <Sogni e delitti>): il thriller morale.

Riflessione colta sui limiti di una filosofia che non riesce realmente a sovvertire o almeno a spiegare, a contatto con la vita vissuta (e il suo soggettivismo), l'ordine delle cose, <Irrational man> parte piano piano, indossando la maschera della commedia sentimentale, raffinata ma già molto vista, per poi però svoltare bruscamente (cogliendo di sorpresa anche lo spettatore) nel vicolo cieco dell'ego e della presunzione, impervia zona d'ombra dove è possibile persino illudersi che anche il peggiore dei crimini possa essere giustificato.

Abe (Joaquin Phoenix, con pancetta), un affascinante docente universitario che ha perso il gusto per la vita, va a letto con una collega (Parker Posey) e flirta con una studentessa (Emma Stone, dagli immensi occhi blu): ma niente sembra più davvero interessarlo. Fino a quando non pensa di potere finalmente essere utile a qualcuno, aiutando una sconosciuta a non perdere i suoi figli. Come? Pianificando di uccidere il giudice che vuole toglierle l'affidamento...

La crisi (creativa e personale) dell'intellettuale, la mancanza di senso, il caso, l'impunità, la giustizia, la colpa, la banalità del male, l'umana debolezza, il libero arbitrio (e la sua vertigine): rivisitati alcuni dei temi portanti del suo cinema, Woody, sempre a suo agio (a costo di ripetersi) tra delitto e castigo, costruisce una commedia nera dove, con la complicità di Kant e Sartre (perché <l'inferno sono gli altri>, anzi siamo noi...), porta alle estreme conseguenze un provocatorio dibattito etico (può davvero un omicidio rendere il mondo un posto migliore?): chiudendo tra gli applausi con un colpo di scena (e di genio) degno del miglior fan di Hitchcock.

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