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The Shrouds, l’ultima mutazione di Cronenberg, ateo non praticante

E ultima venne la morte. Chi altro se non il poeta della carne, il geniale e controverso profeta della trasformazione, il cantore del martirio del sé, avrebbe potuto guardare con affetto, scoprendovi lo spettro di un sentimento, quasi una parvenza di lugubre bellezza, nella decomposizione di un lunghissimo addio, nello sfacelo del corpo, nell'estrema, definitiva, mutazione? Chi se non il regista de «La mosca», «Inseparabili» e «Crash», avrebbe potuto confrontarsi - in questo modo - con temi come l'orrore della fine e l'angoscia di sopravvivere?

Ateo non praticante, l'82enne David Cronenberg trucca Vincent Cassel a sua immagine e somiglianza per farne un doppio scomodo nel baratro fondo di «The Shrouds» («I sudari»), la pellicola in cui affronta, alla sua maniera, la complessa elaborazione del lutto per la morte dell'amatissima moglie, nell'amara consapevolezza che neppure un film (e di certo non questo) può salvarlo dal dolore.

La storia di Karsh (Cassel), imprenditore visionario che nella bara della moglie ha messo una telecamera attivabile con una semplice app del suo smartphone. Non contento, ha costruito un intero cimitero con queste caratteristiche, dove è possibile osservare da vicino gli amabili resti del caro estinto, nonché pranzare in un ristorante alla moda con vista sui sepolcri. Un giorno però alcune delle tombe vengono vandalizzate: chi è stato? E perché?

La mitologia (e il tabù) della morte, l'agonia dell'eternità, il controllo, l'intelligenza artificiale, il doppio: in un futuro che non è né elettrico né tecnologico, ma organico, l'autore di «History of violence» gira un thriller post mortem plumbeo e paranoico inizialmente intrigante, dove la riflessione alta non esclude la presenza dell'humor nerissimo. La provocazione, come sempre nel cinema dell'autore canadese, non è fine a se stessa, ma Cronenberg nella seconda parte perde un po' il filo e il senso del tutto: «The Shrouds» si fa contorto, smarrendosi in un intreccio complottista di genere non molto interessante, per andare incontro a una chiusura non particolarmente riuscita e a fuoco. Come se anche il corpo del film alla fine si decomponesse, si sfilacciasse, davanti ai nostri occhi.

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L'avvocato e il suo cliente: Auteuil conosce La misura del dubbio

Colpevole o innocente? Se fosse solo questa la domanda, sarebbe tutto più semplice. E invece c'è un avvocato allo specchio, un passato che non passa (e pesa, da qualche parte nel cuore), la legge e l'etica: e l'impossibilità di riconoscere il Male anche quando ci chiama per nome.

Attore magnifico da ormai mezzo secolo, Daniel Auteuil per il suo quinto film da regista dimostra di conoscere a fondo «La misura del dubbio»: portando sullo schermo una storia vera che sembra scritta per il cinema - colpi di scena compresi - dove con pazienza e puntiglio lavora ai fianchi il thriller processuale per metterne in evidenza, con stile rigoroso e mai effettistico, i tratti più psicologici, le umane debolezze, i rapporti che, fatalmente, da professionali diventano personali.

Presentato sulla Croisette nella sezione Cannes Premiere, il film insegue la verità che ci meritiamo tutti: anche il penalista Monier, che si ritrova a difendere un uomo accusato di avere ucciso la moglie. Sembra un caso troppo grosso per lui che da almeno 15 anni non entra nell'aula di un tribunale. Ma, nonostante le prove siano contro l'imputato, Monier si appassiona al suo destino.

Quasi interamente giocato sul rapporto cliente/avvocato, un personaggio, quest'ultimo, profondamente anti eroico, «La misura del dubbio» mantiene sempre alta la soglia dell'attenzione, evitando cali di tensione sia in tribunale che fuori. Auteuil, che si ritaglia con la solita capacità di sottrazione il ruolo di protagonista (ma è bravissimo anche Grégory Gadebois, il cliente), attraversa in precario equilibrio il terreno pronto a franare dell'umana coscienza, realizzando un film compiuto e implacabile su quello a cui decidiamo di credere. E di raccontare a noi stessi prima che agli altri. Mentre il bel crescendo finale obbligherà a un nuovo cambio di prospettiva: là dove la legge è uguale per tutti, ma il processo più difficile da vincere è sempre quello interiore.

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La zona d'interesse, l'orrore della porta accanto

Questo film è un rumore. Continuo, instancabile, disturbante. Un ronzio sordo, in sottofondo: come un tarlo che divora la coscienza. È un suono inizialmente indecifrabile, poi sempre più chiaro: è il rumore dell'orrore. Quello della porta accanto. A dieci anni da «Under the skin», cult che lo impose all'attenzione del mondo, l'inglese Jonathan Glazer, cineasta per definizione inclassificabile, porta sullo schermo «La zona d'interesse», il romanzo omonimo di Martin Amis, raccontando, complice un'idea potentissima e audace, la vita ordinaria e a tratti idilliaca dei vicini di casa dell'inferno. Ossia Rudolf Höss e la sua famiglia: e la loro grande casa, una villa con un bel giardino, le stanze sempre in ordine, domestiche e baby sitter. E, dall'altra parte del muro, Auschwitz. Il campo di sterminio dove ogni mattina Höss si reca al «lavoro»...

Fortissimo sin dall'inizio, con quel buio infinito dei (non) titoli di testa, terribile e spiazzante, «La zona d'interesse», candidato a 5 Oscar, già vincitore del Grand Prix a Cannes. non racconta solo la banalità, ma anche la quotidianità - e l'indifferenza - del male. I dolci, le ricche colazioni, le feste: le donne parlano di moda, i mariti di forni crematori, E mentre il fumo nero impesta l'aria, i bambini giocano ai carcerieri. Non accade, in tutto il film, nulla di «sensazionale»: e questo, se possibile, lo rende ancora più agghiacciante. più «insopportabile».

L'orrore resta fuori dall'inquadratura, è un'eco, una traccia: se non fosse per la cenere che si deposita (e viene velocemente rimossa) nel giardino, forse diresti (e qualcuno ancora, maledetto, ci prova) che non è accaduto niente... Glazer (che ha nella Sandra Hüller di «Anatomia di una caduta» ancora più che nel protagonista Christian Friedel, il volto finale) maneggia con cura materiale esplosivo, privilegia piani sequenza a macchina ferma, utilizza il concetto di spazio non solo come astrazione ma in senso etico e politico: e gira un film bellissimo e straniante sul visibile (e sulla «memoria» del visibile) e su ciò che è possibile (o ha ancora senso) mostrare, là dove la normalizzazione del genocidio oggi, 80 anni dopo, ha il suono di un aspirapolvere. Monito non strumentale di un buio che non fa parte del tempo ma dell'uomo.

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Adesso è adesso: i Perfect days di Wenders

Ascolta musica americana nelle vecchie cassette, usa ancora una macchina fotografica col rullino, legge libri che compra in edizione economica, va in bicicletta, non ha la tv né la lavatrice e fa sogni in bianco e nero. E nonostante tutto trova modo e tempo di accennare un sorriso, anche quando magari gli scappa la lacrimuccia. E' analogico e vintage, con quel 4/3 che racchiude nello schermo un piccolo mondo, l'ultimo, poetico, film di Wim Wenders, bella sorpresa, perché inaspettata e imprevista, di un amico ritrovato, cineasta mito dai '70 ai '90, poi, a parte alcuni bellissimi documentari, smarrito al grande cinema.

Che invece qui, tornato in Giappone a quasi 40 anni da «Tokyo Ga», in una città che lo affascina da sempre, schiaccia play ogni mattina all’alba su «The House of the Rising Sun» degli Animals per raccontare i «Perfect days» di un meraviglioso antieroe, un addetto alle pulizie dei bagni pubblici. La sveglia all'alba, il lavoro umile svolto senza mai lamentarsi, la pausa pranzo al parco, il bar. Un uomo solo, ma non disperato, attento ai dettagli, alle piccole cose e allergico ai grandi discorsi. Tanto che Wenders, tra Lou Reed e Janis Joplin, spende più canzoni che parole (il primo dialogo è dopo 12 minuti), trovando sin da subito però la cifra e la delicatezza giusta, giocando tutto sulle lievi increspature di una routine solo apparentemente banale, fessure e crepe dove si fa largo la luce, in un lento svelamento del suo protagonista, interpretato dallo strepitoso Kôji Yakusho, Palma d'oro per il miglior attore all'ultimo Festival di Cannes.

Un film gentile, «Perfect days», zavattiniano, con tocchi alla Jarmusch e alla Kaurismaki, tenero e malinconico. Un piccolo grande film sull'essenziale: un'ode alla semplicità, ma anche alla grande dignità di chi, tagliati i ponti col passato, continua a guardare un presente che cerca di rendere più pulito, più lindo (e più vero) con innocente ottimismo. Forse perché sa che «adesso è adesso».

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Woody Allen c’è: Un colpo di fortuna

E' davvero un «Coup de chance», un gran colpo di fortuna: sia che questo ragazzino di 87 anni continui senza sosta a fare film (siamo al numero 50! E speriamo, anche se lui tentenna, che non sia l'ultimo), sia che in giro, tra molta mediocrità, ci sia gente come lui capace ancora di dimostrare che la classe non è acqua. Perché il cinema di Woody Allen, rispetto a quello che si vede in giro, assomiglia a uno che a una festa si presenta in completo Armani mentre gli altri ci vanno in infradito.

Raffinato, très chic, molto charmant e altrettanto acuto, il primo film in lingua francese del maestro americano si immerge nella splendida fotografia dorata di Storaro per raccontare, con sottofondo jazz, la grande farsa sinistra della vita. Là dove, mentre le foglie morte - come scriveva Prévert - cadono a mucchi come i ricordi e i rimpianti, siamo solo pedine inconsapevoli nel gioco ingannevole del destino.

Parigi, oggi: Fanny, ex ribelle e sognatrice che alla lunga si è imborghesita, è sposata con il facoltoso Jean, un uomo che non crede alla fortuna, più appassionato ai trenini elettrici che alla poesia, che di mestiere rende più ricco chi già lo è: ma la donna, giovane e bella, incontra un giorno un ex compagno di classe, uno scrittore che cita Mallarmé e le confida di essere sempre stato innamorato di lei...

All'ombra di Simenon (anche citato), un romantico triangolo che sfocia nel noir: un bellissimo film sul caso (e su quello che si è, si è stati e si resta sempre) che si aggira in zona «Match point» (dove già la sorte aveva un ruolo più che decisivo) tra chiacchiere da upper class (il vuoto cosmico della ricchezza a cui il regista oppone la poesia dell'arte e del sentimento) e delitto e castigo. Sottile nell'intrigo, divertito e acuminato, Woody, complice un terzetto di interpreti molto bravi e in sintonia con il regista (se Melvil Poupaud, caro a Ozon, era una certezza, Lou de Laâge afferra il ruolo che può cambiarle la vita), gioca di fino, sgusciando tra coincidenze che non sempre lo sono, lasciando che l'amaro prevalga nettamente sul dolce.

Permettendosi però il lusso di un clamoroso colpo di scena degno di un deus ex machina: più che la ciliegina, la torta di autore straordinario che sa che il miracolo di vivere, di essere al mondo, non va sprecato. Né sottovalutato.

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