Le Povere creature dì Lanthimos, un film geniale che emancipa lo sguardo
L'emancipazione femminile? E' una strada tortuosa. Anzi, peggio: è un film dell'orrore. Tanto che a volte vale la pena di riderci su. Come fa, con estro e fantasia, il greco Yorgos Lanthimos, che non solo rilegge «Frankenstein» in chiave femminile e femminista, ma nel denunciare la pressione e il controllo con cui gli uomini cercano di ingabbiare (ieri, oggi, sempre..,) le donne gira un film immaginifico e geniale sulla scoperta di sé (e del mondo), un bizzarro e grottesco viaggio iniziatico ai confini del libero arbitrio dove tutto ha il sapore della prima volta.
Fantasmagorico, affascinante, provocatorio, amaro e insieme divertente, «Povere creature!», l'ultimo lavoro dell'inclassificabile autore di «La favorita» e «The lobster», rivisita, attraverso il romanzo omonimo dello scozzese Alasdair Gray, il tema classico e gotico della creatura di Mary Shelley, venandolo di riflessioni universali e molto contemporanee.
Nella Londra vittoriana, un medico dal volto ricoperto da orribili cicatrici (Willem Dafoe) riporta alla vita una giovane suicida (Emma Stone) con un folle esperimento. Senza vergogna e pregiudizio, priva di alcuna maschera sociale e di senso di colpa (e, apparentemente, anche senza passato), la donna abbandona lo scienziato-dio padre che l'ha (ri)messa al mondo pronta a imparare, da Lisbona a Parigi, tutto daccapo: provando sulla sua pelle emozioni e rischi dell'essere...
La natura del piacere e quella del potere, il rapporto - complesso anche per qualsiasi scienza empirica - con il sentimento, l'affermazione di sé al di là delle rigide convenzioni sociali, il sesso, l'innocenza: là dove l'individuo ricrea l'universo attraverso le sue regole e non tramite quelle precostituite e comunemente accettate del sistema, Lanthimos realizza un originalissimo film-esperimento - vincitore del Leone d'oro a Venezia, di due Golden Globes (tra cui quello per la migliore commedia dell'anno) e candidato a ben 11 Oscar - in cui emancipa anche il nostro sguardo, senza paura di eccedere nell'uso del grandangolo (e nel minutaggio: sono due ore e venti), ma, saltando con agilità dal bianco e nero al colore, trovando una sintassi affascinante fra distorsioni, fondali da vecchio cinema, inquadrature da buco della serratura.
Un mondo dove una strepitosa Emma Stone si può muovere a corpo libero, adorabile «mostro» finalmente libera, come lo spettatore, da qualsiasi catena.
Foglie al vento, la favola romantica e cinefila di Kaurismaki
Il calendario recita 2024, e pazienza se, così come i telefoni, le radio sono d'epoca: appena fai per accenderle, gracchiano tutte la stessa cosa. L'Ucraina, la Russia, gli attacchi, i morti: «Maledetta guerra», chiosa la protagonista. Anche lei, intimamente lo sa: se qualcosa ci salverà sarà solo l'amore.
E' una deliziosa favola romantica, chapliniana sino al midollo, lieve e ultracinefila (le citazioni, da Godard, omaggio al maestro morto mentre erano in corso le riprese, a «Rocco e i suoi fratelli», passando per Jarmusch, si sprecano e sono sempre a fuoco, affettuose, ispirate) quella che Aki Kaurismaki, un tizio che vorresti sempre accanto in un bar o in un cinema, ha portato, come un dono, in questo altrimenti sciatto Natale, conquistandoci per l'ennesima volta con quel suo tono surreale da cinema muto, il melò stralunato, l'ambientazione vintage, lo stile riconoscibilissimo, inconfondibile.
Una commedia happysad, sorretta dalla solita ironia rarefatta ma sempre efficacissima, «Foglie al vento» (Premio della giuria a Cannes, due candidature ai Golden Globes, nella short list degli Oscar) che, sulle note di brani celebri cantati in finlandese (anche «Mambo italiano»...), racconta dell'incontro tra due solitudini: lui, depresso perché beve («e allora perché bevi?». «Perché sono depresso»), perde un lavoro dopo l'altro, lei, impiegata al supermercato, vive in un piccolo appartamento: si incontrano, si perdono, si ritrovano...
Nel mezzo c'è tanto cinema (tenue, divertente, poetico, mai banale) e altrettanto amore appassionato per l'umanità, meglio se fallata, irregolare, depressa, disfunzionale, tenera. E un regista, che nella vita ha fatto anche il lavapiatti e il palombaro, che ci mette una leggerezza che appartiene a pochi se non a pochissimi e la malinconia di chi, nonostante tutto, ha ancora fiducia nel domani. Che è quel posto dove vai a piedi, mano nella mano e con un cane che si chiama Chaplin.
Drive my car, salite su quella macchina
Accettate un consiglio d'amico: seguite quella Saab rossa. Anzi, saliteci proprio sopra. Ne vale la pena: è un viaggio da fare tutti insieme. Il più bel film dell'ultimo Festival di Cannes, lo stesso che ha appena trionfato come miglior film straniero ai Golden Globes, fa tappa finalmente anche nella nostra città, dopo la fortunata anteprima al Parma Fillm Festival dello scorso novembre. Celebrato dalla critica internazionale, premiato un po' ovunque (sulla Croisette vinse il riconoscimento per la miglior sceneggiatura), «Drive my car», è il gioiello di Ryûsuke Hamaguchi, 43enne giapponese che ha abbastanza pelo sullo stomaco e poesia nel cuore da potersi permettere un prologo lungo ben 45 minuti (alla fine dei quali partono i titoli di testa...), singolare e folgorante biglietto da visita di una pellicola che vi chiede più attenzione che fretta, paziente disponibilità verso l'altro (e verso il cinema) piuttosto che la logica convenzionale di chi ascolta una canzone solo in attesa del ritornello.
Tratto da un racconto di Murakami (pubblicato da Einaudi in «Uomini senza donne»), il film, dove vita e rappresentazione non smettono di incrociarsi, di fondersi, di «giustificarsi» a vicenda, racconta di un attore e regista che, dopo l'improvvisa morte della moglie (dei cui tradimenti era a conoscenza, ma preferiva fare finta di nulla), si reca a Hiroshima per partecipare a un importante festival teatrale: qui, per questioni assicurative, gli viene assegnata una giovane autista, chiamata a guidare la vecchia Saab rossa dell'uomo. Lei, taciturna, ha un passato difficile, lui, che in auto era abituato a memorizzare i testi, più di un trauma da affrontare. Poco a poco, lasceranno entrare l'altro nella propria sfera emotiva, nel proprio racconto personale e privato.
Forte di un copione elaboratissimo e stratificato, dove le parole della finzione risuonano nella realtà e viceversa, «Drive my car» è un film meravigliosamente umanista che ha personaggi splendidi che crescono insieme a lui. In cerca di una lingua comune, là dove molti sentimenti sono lost in translation, colpisce soprattutto quello sfiorarsi di solitudini, esaltato da un sottotesto teatrale (prima «Aspettando Godot», poi «Zio Vanja») denso e rivelatore.
Molto strutturato, con ottimi interpreti, «Drive my car» tocca corde fonde: forse perché «il testo ti interroga: se lo ascolti farai lo stesso anche tu».
Van Gogh, l'uomo che diceva "io sono i miei dipinti"
Aveva le scarpe rotte e le calze bucate e si lavava raramente: ma davanti a un paesaggio piatto sapeva riconoscere l'eternità. Il cinema mette nuovamente in cornice (nei quattro angoli di una tela-schermo) Vincent Van Gogh, l'uomo che diceva <io sono i miei dipinti>. E nel cercare di vedere quello che gli altri non vedono (non è forse anche la missione del regista?) rivive ancora in un film, inseguendo un'idea che duri per sempre. A costo di pagare il talento con l'emarginazione, di scontare la <maledizione> del suo genio con l'incomprensione. Rassegnato ma consapevole che - come un Cristo in croce - solo più avanti sarebbe stato davvero capito.
Al riparo dalle pozzanghere scivolose del biopic più tradizionale, <Van Gogh-sulla soglia dell’eternità> cerca, con macchina a mano, primissimi piani e un montaggio a tratti febbrile, l'uomo prima del mito: non sfugge il mood un po' modaiolo dell'operazione, ma il film del regista pittore Julian Schnabel - sulla carta rischioso -, non esce comunque sconfitto dal pregiudizio.
Puntuale in alcuni dettagli, il film si prende per altri versi delle libertà dalla storia ufficiale: negando ad esempio che il grande pittore (l’arma, in effetti, non fu mai ritrovata) si sia suicidato. Ma più che attenersi con precisione alla vita documentata di Van Gogh, a Schnabel (che aveva già cantato le gesta di Basquiat) interessa riflettere sul significato dell’essere artista, sul tormento che scava in una dimensione interiore difficile, praticamente impossibile - se non attraverso le proprie opere - da comunicare all’esterno: sulla sofferenza (e sulla solitudine) insita nel genio, ma anche sulla sua capacità di avvicinarsi alla luce. Una tensione emotiva, un approccio ideale, a cui dà corpo, con un’interpretazione dolorosa, uno scavato Willem Dafoe, che dopo la Coppa Volpi vinta a Venezia e la candidatura al Golden Globe sta rincorrendo (32 anni dopo <Platoon>) la quarta nomination all’Oscar.
Lady Bird, la vita dalla parte sbagliata dei binari
E' un film sull'età di passaggio, sull'approdo alla maturità, sull'avventura (e la difficoltà) di crescere, tra molte prime volte (che sono sempre un casino), amiche del cuore, la patente da prendere, ma anche quelle domeniche pomeriggio passate a visitare case che non potrai mai permetterti. Sta lì, <Lady Bird>: in quel sentirsi sempre inadeguate, fuori posto, intrappolate in un destino scritto da qualcun altro. In quell'essere differenti e scoprirsi deluse, che passi una vita a scappare forse solo per avere un giorno nostalgia di quello che hai lasciato.
Tra le voci più autorevoli del cinema indipendente (prima solo come attrice e sceneggiatrice, adesso anche in qualità di acclamata autrice), Greta Gerwig mette molto di se stessa nella sua opera seconda, ambientata a Sacramento - <il Midwest della California> - negli anni in cui anche lei, oggi 35enne, era una ragazzina.
Christine (una bravissima Saoirse Ronan) si fa chiamare Lady Bird, dà la mano quando si presenta, sogna un futuro nella East Coast: ma il padre ha appena perso il lavoro e farsi capire da sua madre non è certo una passeggiata...
La scuola cattolica, il teatro, i primi ragazzi, il ballo di fine anno, le canzoni di Alanis Morissette e <Jim Morrison chi?>: quinta donna nella storia a essere candidata come miglior regista agli Oscar (il film, che ha già vinto due Golden Globes, tra cui quello per la migliore commedia dell'anno, conta 5 nomination pesanti), la Gerwig racconta com'è la vita e come ci si sente <dalla parte sbagliata dei binari>, dimostrando un empatico talento nel raccontare gli sgambetti e i crocevia della normalità, nell'età inquieta in cui è più difficile accettare le proprie e le altrui imperfezioni. Ma si è ancora giusto in tempo per comprendere chi si è veramente.