La trama fenicia: il miliardario, la suora e il disastro del capitalismo
C'è un tizio ricchissimo che ha 10 figli, 9 maschi e una femmina che vuole farsi suora e fuma la pipa, è sopravvissuto a 6 incidenti aerei e nonostante tentino invano di avvelenarlo con il brezel non perde il fiuto negli affari che ne fanno «mister 5%». Già così vi ho dato un bell'indizio: ma se vi dico che il set assomiglia a un (bellissimo) libro illustrato e che sono della partita anche una spia che ama gli insetti e gli inquilini dell'aldilà (rigorosamente in bianco e nero) è abbastanza palese che ci troviamo nell'ennesimo, stravagante e delizioso, film di Wes Anderson, «La trama fenicia». Vero che il regista americano (di recente in concorso nell’amato Festival di Cannes, nel quale è sempre ospite gradito) ripete ormai sempre all'infinito il suo schema e che il suo cinema bizzarro e analogico sembra quasi autocitarsi: ma l'ironia è centrata, lo stile immediatamente riconoscibile e rassicurante, il gioco sempre godibile. E qui, oltretutto, il cantore delle famiglie più disfunzionali lascia che la satira si fonda con la denuncia politica, mentre, in fila al funerale del capitalismo, il potere riflette sull’eredità che lascia ai suoi figli: denaro e polvere, avidità e disastro. Go Wes, quindi: ma se il colpo riesce ancora è merito anche dei complici. La banda Anderson, per l’esattezza che conta gene come Benicio Del Toro, Bill Murray, Scarlett Joahnsson, Benedict Cumberbacht. E trova anche una faccia nuova: quella di Mia Threapleton, la 25enne figlia della ragazza con cui avreste voluto ballare sul Titanic. Sì, lei è Kate Winslet: e noi non siamo più dei poppanti.
The French Dispatch: il film pop-up di un regista che libera la testa
Ci sono molti aggettivi, molte parole, moltissime (morbide, colorate, lievi), per descrivere il cinema raffinato e irresistibile di Wes Anderson. Ma forse ce n'è una che le racchiude tutte: delizioso. Fiabescamente vintage, surreale, dolcemente ironico: ma più di tutto delizioso. Non sfugge alla regola nemmeno «The French Dispatch», un film che si sfoglia come una rivista, l'ultimo lavoro del regista texano sette volte candidato all'Oscar (che però - ma siete matti? - non ha mai vinto): girato con il tocco del grande illustratore, forte di un'immaginazione sempre fertilissima, è una lettera d'amore al giornalismo, capace di passare con disinvoltura estrema dal colore al bianco e nero, dai 4/3 allo schermo pieno. Divisa in vari capitoli (come le sezioni di un giornale), la pellicola, godibilissimo divertissment dai colori pastello (quel giallo senape, gli azzurri, i verdi, i rossi: chapeau), racconta di una redazione americana con base nella Francia del XX secolo la cui chiusura ormai sembra imminente... Ma nell'ufficio del caporedattore (Bill Murray, l'attore feticcio di Anderson) fa bella mostra di sè una scritta che non lascia adito a dubbi: «Non piangere». Arte moderna, il Maggio del '68, la venerazione per gli chef (qui ce n'è uno che si chiama Nescaffier...): l'autore fuori dagli schemi di «Moonrise kingdom» e «The Grand Budapest Hotel» guarda stilisticamente al suo adorato New Yorker, facendosi gioco degli stereotipi per proporre col sorriso sulle labbra i suoi elaboratissimi quadri vivant, non disdegnando nemmeno l'utilizzo del fumetto. Vera e propria gioia per gli occhi, sospesa tra la fantasiosa rivisitazione d'epoca e il gusto ingegnoso per l'inquadratura (sovraffollata di oggetti, di particolari, di persone), «The French Dispatch» è un caleidoscopico film sul mondo che (purtroppo) cambia, la nostalgia di qualcosa che non è mai esistito, pieno di idee (il detenuto che dipinge la bella guardia carceraria, la partita a scacchi a distanza tra il leader del movimento studentesco e il governo...) e ricchissimo di star (l'elenco degli amici di Wes è davvero infinito: da Benicio Del Toro a Owen Wilson, da Frances McDormand a Timothée Chalamet, da Léa Seidoux a Christoph Waltz....): si apre come un libro pop-up, libera la testa e porta beneficio anche agli sguardi affaticati.
Soldado, Sollima fa l’americano
<Regole d'ingaggio?>. <Fanculo le regole: crepano tutti>.
Sul confine tra il male e il male, dove il gioco è più sporco e la morale assente, Sollima, dopo avere fatto “sul serial” in Italia (suoi <Romanzo criminale> e <Gomorra>) trova un invito per il tavolo che conta: e <fa l'americano> a casa degli yankee, girando con <Soldado> un action spietato, metodico e feroce. Certo, il confronto con <Sicario>, di cui questo film è il sequel, seppure non impietoso, è comunque, oltre che inevitabile, impari: là c'era più manico e struttura, qui la lettura degli eventi sembra più artificiosa, meno efficace. Di buono c'è che Sollima però non si lascia comunque intimidire dimostrando, se non proprio una grande originalità stilistica (per quanto il cinema di genere lo sappia manipolare con cognizione di causa), un suo carattere, la capacità di potere essere della partita.
Che è crudele ma non scontata nel riportare al centro del mirino il misterioso Alejandro (Benicio Del Toro), assoldato dalla Cia per combattere i narcos, che hanno cominciato a infiltrare in mezzo ai clandestini terroristi islamici.
Scandito da una musica ansiogena che privilegia i bassi, <Soldado> si presenta con un inizio esplosivo e spettacolare, ma via via si fa tentare da barlumi di umanità che ne rendono meno credibile l'aspetto ruvido, il volto segnato. Ma preso per quel che è, specie quando privo di scrupoli, può funzionare: soprattutto quando non ha paura di mostrare cicatrici che non possono guarire.
Che la forza sia con noi: Star Wars-Gli ultimi Jedi
<E' così che vinceremo: non combattendo ciò che odiamo, ma salvando ciò che amiamo>.
Nella ricerca, a volte vana, del proprio posto nel mondo, di una risposta alle domande che risposta non hanno, chi viene dal niente (ed è niente) decide che è tempo di essere qualcosa. E interroga l'immagine riflessa nello specchio, sapendo che non c'è riuscita dove non c'è fallimento (<il più grande maestro>), non c'è luce, fiamma, dove non c'è anche buio, disperazione. Ci vuole coraggio a confrontarsi con l'epica di <Star Wars>, col suo mito che è già mitologia: ci vuole coraggio (e <forza> ovviamente, e follia) anche se è lo stesso <Star Wars> a farlo, a provarci. Un film che guarda a se stesso, confrontandosi col peso (forse ormai insopportabile) della propria leggenda: senza paura di liberarsi delle favole (e dei successi) di un tempo per riaccendere davvero la scintilla, gettare un nuovo seme, dare vita (emblematica l'ultima sequenza) a un'altra generazione di ribelli. A 40 anni tondi tondi dall'originale – un caso sociale, di costume, oltre che cinematografico – l'episodio VIII di <Guerre stellari> non ha paura di gettarsi ancora nella mischia, nella battaglia: consapevole che, nemmeno stavolta, il sacrificio sarà vano.
Mentre il Primo Ordine dà la caccia in ogni angolo della galassia ai pochi ribelli superstiti, Rey cerca di convincere Luke Skywalker a unirsi alla lotta: ma il cavaliere Jedi, che ormai vive isolato da tutto, non sembra sentire ragioni...
Scontri spaziali, inseguimenti vertiginosi, animali fantastici, missioni impossibili: spettacolare, potente, ricco di colpi di scena, <Star Wars: Gli ultimi Jedi> riesce a restare in equilibrio tra le due anime della pellicola, quella più avventurosa spettacolare (venata anche da un'ironia che forse non piacerà ai puristi) e l'altra, più introspettiva, interiore, sulla riscoperta di una fede mai forse davvero smarrita, sull'ostinazione nel cercare una speranza quando non c'è più nemmeno quella. E se non tutto è allineato (la casa di Skywalker che sembra un trullo nemmeno abitasse ad Alberobello, il cattivissimo di digitale e forzata deformità, il farabutto versione Del Toro...), nel necessario commiato dei personaggi iconici (invecchiato e un po' imbolsito, Mark Hamill regge però buona parte del film sulle sue spalle) brillano umanissimi eroi giovani e belli. Il futuro, oltre che in quelle del regista Rian Johnson, è nelle loro mani: le premesse ci indicano che sapranno farne buono uso. E che per quanto la fine non sarà mai tale (il capitolo conclusivo è fissato per il 2019, ma sembra già pronto a ripartire un nuovo ciclo), la saga starà sempre dalla parte giusta: quella dei perseguitati e degli oppressi.
Perfect day: finché c'è guerra (e ironia) c'è speranza
Vent'anni fa, <da qualche parte nei Balcani>, in una zona famosa per due cose, lo yogurt e il senso dell'umorismo: dove il teatro di guerra diventa teatro dell'assurdo e l'acqua costa sei dollari al secchio. Ma certe ragazze sono così belle (<Sei diversa dall'ultima volta>. <Sì, sono vestita...>) che ti fanno scordare anche le case dilaniate, le strade sterrate, le vendette sommarie. E' un film senza protocollo, figlio del paradosso, che cammina agile sul terreno minato della dissonanza, <Perfect day>, stallo reale ed emotivo di un gruppo di sradicati (<casa tua è ovunque dove ci sia bisogno d'aiuto>) in realtà in perenne movimento: a costo di tornare al punto di partenza e lanciarsi nell'ennesima missione probabilmente urgente, sicuramente umanitaria e forse inutile. O forse no.
Una pellicola matrioska, come la definisce giustamente lo spagnolo Fernando Leon de Aranoa, regista anche de <I lunedì al sole> (bello vero: recuperatelo): un dramma dentro a una commedia dentro a un film di guerra dentro un road movie. Una storia che non sfugge i generi, ma, anzi, tra schermaglie sentimentali, bambini che vogliono un pallone e un <rat pack> di angeli con la faccia sporca, li moltiplica: giocando sul contrasto continuo dell'amaro e del dolce, del serio (e a volte tragico) e del faceto.
La giornata (per nulla perfetta) di alcuni cooperanti alla fine della guerra dell'ex Jugoslavia: il disilluso che vorrebbe chiuderla qui, il <matto> che non ha nessuno che l'aspetta, la pivellina idealista, la tosta arrabbiata. Squadra imperfetta per un match senza regole: ma c'è un morto da tirare su da un pozzo. Peccato che nessuno abbia una corda...
Bel ritmo, retorica assente, ottimo cast internazionale (Benicio Del Toro, Tim Robbins, Olga Kurylenko, Mélanie Thierry, Sergi Lopez...) e soprattutto un tono da commedia, spesso scanzonata e sarcastica, calato in un contesto assolutamente drammatico. La chiave giusta che fa la fortuna di questa pellicola rock e corale, che guarda a <Mash> ed è già stata applaudita a Cannes: un film in cui la battaglia contro i mulini a vento di chi, per vocazione e per mestiere, porta aiuto agli altri non ha il passo grave dell'impegno sbattuto in faccia, ma diventa piuttosto riflessione disincantata sull'assurdità dell'odio e del rancore, là dove la prima vittima della guerra è ancora e sempre la ragione.