Quell'uomo tutto di un pezzo sul Ponte delle spie
E’ gente così: uomini tutti d’un pezzo. Che più li colpisci, più li cacci per terra, più loro si rialzano, si rimettono in piedi. Uomini ordinari che a volte fanno cose straordinarie: rischiando in proprio, solo perché ci credono. O perché, semplicemente, è giusto. Metteteci il bimbo di «E.T.», lo sceriffo de «Lo squalo», Schindler certamente, ma anche il combattivo avvocato di «Amistad», il capitano che salva il soldato Ryan e il presidente Lincoln: poi alla lista aggiungete James B. Donovan, l’eroe borghese de «Il ponte delle spie». Vi diranno che questo è un film sulla guerra fredda, sulla paranoia americana del pericolo rosso, un avvincente girotondo di segreti che si nutrono dell’ombra. Non fa una piega. Ma più di tutto è una pellicola sull’integrità morale (che no, non è in vendita su Ebay), sul rispetto della legge (anche quando non ci piace), sui valori fondanti di un’etica che ci fa dire (e sapere) che «ogni uomo è importante». Né un thriller né un film storico, almeno non solo, questo «Bridge of spies»: ma la celebrazione, complice una storia vera, dell’eroe spilberghiano per eccellenza, il buon padre di famiglia scolpito nel marmo, mai arrendevole, legalitario, consapevole dei diritti e dei doveri alla base della democrazia e della civiltà: e non per questo meno umano o meno spaventato. Ma sicuro sin da subito da che parte stare: che poi è quella dell’onore e della lealtà.
Uno come Donovan, appunto: avvocato delle assicurazioni a cui tocca in sorte di difendere niente meno che una spia russa, il colonnello Abel. Tutti lo vogliono morto: lui invece, guadagnandosi il disprezzo di molti, riesce a evitargli la sedia elettrica. Una mossa che si rivelerà vincente quando, nel ‘62, Donovan verrà reclutato dal governo per scambiare Abel con un pilota della Cia abbattuto nella Germania Est.
Ambientato nella Berlino appena divisa (e lacerata) dal Muro, molto classico ma altrettanto ben fatto, attento nella ricostruzione (esaltata dalla fotografia vintage di Kaminski), «Il ponte delle spie», scritto (con Matt Charman) dai fratelli Coen, brilla subito in apertura (da manuale della vecchia maniera la sequenza del pedinamento), per poi travestirsi da legal thriller prima di tuffarsi nella spy story con sottotesto politico: terreni dove Spielberg si muove agile affidandosi al fidatissimo Tom Hanks. Lasciando però al laconico Mark Rylance (candidato due volte – per questo film e per una serie tv – ai Golden Globes 2016) ricami e spigolature.
Christopher Lee, l'immortale Dracula che aveva sangue emiliano
«Non mi fermerò mai fino al giorno in cui mi dovrò fermare: è una questione di sopravvivenza».
Ho incontrato Christopher Lee una volta sola: era il 2009, a Roma. Lo vedevi e non potevi non portagli rispetto: un po' per la riconoscenza che si deve alle leggende, un po' perché era troppo colto - e saggio - per non volergli bene. Allora non sapevo che nelle vene del vampiro più famoso dello schermo scorreva sangue reggiano: sua madre faceva Carandini di cognome e i suoi antenati venivano da Casina, meno di 5.000 anime lassù sull'Appennino. Altissimo (un metro e 96 centimetri portati con grande signorilità), la lunga barba bianca, questo gentiluomo londinese che diede dignità cinefila a quelli che una volta chiamavano b-movie, non sprecava una parola: ha girato oltre 280 film e ne avrebbe fatti altrettanti se la morte non fosse venuta a reclamare l'altro giorno al sua pellaccia dura. A Roma portò Triage, film per nulla fortunato sui traumi della guerra che però gli diede la possibilità di parlare un po' di sè: non tanto del divo né dell'attore, ma di un uomo che una volta, in un secolo passato era stato pure un soldato. <So bene cos’è la guerra: l’ho fatta per 5 anni senza mai tornare un giorno a casa. Cosa facevo? Per la maggior parte del tempo provavo a non farmi ammazzare. Due anni li ho passati anche in Italia: mi ricordo il vento e il fango, l’inverno sulla costa adriatica. Una volta finita, nel ’46, ho indagato sui crimini di guerra: è stato anche peggio della guerra stessa. Una guerra terribile: tutte le sono, d’altra parte. E alla fine sono soprattutto una questione politica>. Disse così, tenendo sulla platea quel suo sguardo magnetico, dove c'era spazio però per un'imprevedibile tenerezza. Era un maestro, ma non si atteggiava a tale, anzi: <Non mi permetterei mai di dare consigli a un giovane attore: ognuno deve imparare da sé, anche se a volte è molto dura>. Lui era partito dal basso, dalla gavetta: anche se la nonna era una famosa cantante lirica, la madre una donna bellissima amata dagli artisti, il patrigno lo zio di Ian Fleming, l'inventore di James Bond. Parlava otto lingue e nella sua vita avventurosa incontrò anche Tolkien: se ricorderà molti anni dopo indossando le vesti di Saruman, lo stregone de <Il signore degli anelli>. Il conte Dracula gli diede notorietà planetaria, ma non gli piaceva rammentare troppo quel ruolo, non voleva fermarsi lì: tanto che moltisimi dei grandi lo hanno voluto. Da Spielberg a Tim Burton, da Billy Wilder a Peter Jackson. Persino la saga di <Guerre stellari> lo volle imbarcare. E Scorsese, in <Hugo Cabret>, ne rivelò probabilmente la vera natura: un uomo serio, che agli occhi di un bimbo poteva apparire minaccioso, ma in realtà dolcissimo, amabile. E immortale, proprio come il suo personaggio più famoso.