2018, Recensione Filiberto Molossi 2018, Recensione Filiberto Molossi

Ready Player One: Spielberg, il Sacro Graal e il gioco della vita

Non ha Facebook, né Twitter, né Instagram, rimpiange i Duran Duran e probabilmente smanettava con i primi Atari. E può permettersi di affrontare (metaforicamente) quel tronfio di Zuckerberg e dirgli in faccia: <Ehi bimbo, tu non lo sai: ma tutti i sogni più belli li hanno inventati quelli come me>. Perché nel grande gioco della vita solo chi non gioca ha già perso.

Cercheranno di convincervi che è solo un popcorn movie pieno di effetti speciali e invece è veramente un bellissimo film quello con cui Steven Spielberg difende dall'abisso di un mondo fasullo sempre più social che sociale il valore inestimabile della realtà, l'introvabile Sacro Graal di una società virtuale che invece di affrontarli evade dai suoi problemi.

Nel 2045, in un'America stanca dove non ci si ribella più per i diritti civili ma al massimo per la banda larga, l'unico passatempo è Oasis, un incredibile mondo virtuale dove Wade, un ragazzo, forse cerca solo se stesso...

Irresistibile celebrazione della cultura pop degli anni '80, immaginifica riflessione sulla solitudine contemporanea (o da tastiera...), <Ready Player One> è un film manifesto spiritoso, creativo e spettacolare che gioca meravigliosamente con la nostalgia di quello che potremmo perdere. Il regista di <E.T.> ci mette tutto: <Quarto potere> e <Space invaders>, <Ritorno al futuro> e <Gundam>, <Alien> e Michael Jackson. E in un omaggio continuo, senza sosta – geniale e <definitivo> quello a <Shining> (<vieni a giocare con noi?>) -, fonde come nessuno prima il film game al teen action ricordandoci il piacere di un universo (<ci siamo dimenticati come si sta all'aria aperta>) più lento e autentico. Perché <per quanto spaventosa, la realtà rimane l'unico  posto dove fare un pasto decente>.

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Filiberto Molossi Filiberto Molossi

Sing street, non sono solo canzonette

E' un film <happysad>, felice-triste come una canzone dei Cure (ma ambientato al tempo in cui le ragazzine impazzivano per  Spandau e Duran Duran...), una commedia irish dall'anima di vinile, divertente e piena di vita, spigliata, neoromantica e deliziosamente vintage, <Sing Street>: una bella sorpresa che ti prende e ti porta via, tra capelli bicolori e apparecchi per i denti, sigarette fumate di nascosto in bagno, videoclip artigianali e genitori perennemente improbabili che frequentano corsi per smettere di picchiare i vicini... Quando c'era ancora tempo e voglia di sognare e la tipa all'angolo  ti spezzava il cuore: ma a volte sapeva essere dolce come una ballata unplugged.

Ritratto anticonformista e brillantissimo di una generazione che non voleva guardarsi indietro né lasciare le cose a metà, <Sing Street> , diretto dal John Carney di <Once> (già bassista dei <Frames>), è una commedia musicale di grande energia che celebra un manipolo di piccoli eroi impacciati, absolute beginners desiderosi se non di fare la differenza di essere almeno differenti. Studenti come Conor, front man (anzi, boy) di una band di Dublino che prova a sfondare con la musica per fuggire da una realtà opaca. Ma soprattutto per conquistare la bella Raphina...

Brani famosi (dai Jam a Hall & Oates, passando per Adam Levine che al film ha regalato la sua <Go now>) e altri inediti (ma <alla maniera di>...) si alternano  risvegliando una bella aria anni '80 in un film diretto e fresco che guarda a <The commitments> (ma in versione adolescenziale), affrontando lo schermo con  uno spirito ribelle degno dei Green day: fidatevi, non sono solo canzonette.

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