2022, Recensione Filiberto Molossi 2022, Recensione Filiberto Molossi

Scompartimento n. 6: due ragazzi sul treno della vita

Ha ragione lui, Juho Kuosmanen, il regista finlandese che i parmigiani hanno avuto il piacere di conoscere e applaudire al Parma Film Festival lo scorso mese: «Scompartimento n.6» è una commedia adatta a persone infelici. Ma, aggiungo io, fa stare bene anche chi non lo è. Sarà per quell'aria tenera e trasandata anni '90, sarà per quei due personaggi spersi e indeterminati, ma questo originale road movie (su binari, gomma e persino via mare) che celebra il breve incontro tra una studentessa finlandese e un giovane russo, ha qualcosa che ci appartiene, un senso di scoperta (di sé, ma anche dell'«altro») che va oltre il pregiudizio, una voglia di confronto che supera ogni, fisico e mentale, distanziamento. Sono diretti nello stesso posto, Laura e Ljhoa, ai confini del mondo: lei per vedere delle pitture rupestri di 10mila anni fa, lui per andare a lavorare in una miniera... Finiti per caso nello stesso scompartimento di un treno (vero) divideranno un pezzo, piccolo ma significativo, del lungo e tortuoso itinerario della vita. Tratto dal romanzo omonimo di Rosa Liskom, il film, vincitore del Grand Prix all'ultimo Festival di Cannes e candidato a tre premi Efa, dà un senso - là dove ogni cosa sembra lontana -, alla convivenza forzata tra due ragazzi stranieri a sé stessi, in viaggio alla ricerca di qualcosa che conti. Incompleti, smarriti, perduti e perdenti: eppure bellissimi - e soprattutto indimenticabili - in quel capirsi anche se profondamente diversi. In quel riconoscersi, unici, nel mondo che continua a camminare indifferente a tutto.

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Un altro giro, la crisi di mezza età in fondo al bicchiere

Questo non è un film sul bere. È un film sui limiti: morali, umani. personali. E non è nemmeno, a guardare bene, un film sull'alcol: ma, piuttosto, sul potere d'attrazione dell'alcol, sul suo fascino «facile» e immediato, sulla sua capacità di aprire la strada verso l'euforia o l'oblio: le medicine più efficaci contro lo stallo di un'esistenza che non sembra più andare da nessuna parte. È bravo Vinterberg e mica da oggi: scomoda Kierkegaard e la natura del fallimento per raccontare, in modo divertente e amarissimo, la sua generazione (50 e più), facendo degli amici miei e della bottiglia gli alcolisti non anonimi di un Paese in costante stato d'ebbrezza, vittime (in)consapevoli dell'inevitabile crisi di mezza età convinte di risolvere i propri disagi affogandoli in un bicchiere dopo l'altro. C'è del marcio in Danimarca, è cosa nota: ma la lezione stavolta è universale così come il cinema del regista de «Il sospetto» che affronta in modo assolutamente originale, stando ben attento a non scadere nella denuncia o nella retorica, una piaga sociale, là dove la dipendenza non è il peggiore dei problemi, quanto la cartina di tornasole di chi cerca disperatamente un alibi alla propria resa o addirittura la giustificazione scientifica ai propri vizi, alle proprie debolezze. Provocatorio, scorretto, «Un altro giro» (Oscar per il miglior film internazionale e una pioggia di Efa), animale raro anche nell'ambito del cinema d'autore, diffida degli astemi (lo era pure Hitler...) e lascia campo libero a Martin (Mads Mikkelsen, bravissimo) e ad altri tre insoddisfatti professori di liceo che decidono di sperimentare su stessi la stravagante teoria di uno psichiatra norvegese secondo cui bere alcol con una certa metodicità migliora la vita. E in effetti i primi risultati sono incoraggianti: i quattro si scoprono più vitali e sicuri di sè, riacquistano fiducia. Ma ci prendono gusto: e finiscono per esagerare... L'alcol come piacere sociale, fuga dalla realtà, consolazione, terapia: in una nazione dove «tutti bevono come pazzi», Vinterberg guarda attraverso il vetro smerigliato del bicchiere la deriva e la caduta di un uomo che, mentre la moglie non ha tempo di ascoltarlo e i figli nemmeno ci pensano, ha perso se stesso, quello che era, quello che non è diventato. E ne fa il simbolo danzante dell'incapacità di dare un esempio alle nuove generazioni, di una comune sconfitta esistenziale, ma anche della necessità di prendersi dei rischi, di ricominciare a vivere, a qualunque costo e in qualsiasi modo.

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Cold War, se avete amato lo amerete

Il film più bello delle feste? E' un melodramma in bianco e nero e 4/3 girato da un regista polacco che ha vissuto, per qualche tempo, anche in Italia. E' il miglior film europeo dell'anno (ha appena trionfato agli Efa, dove ha vinto 5 statuette), è stato premiato per la regia a Cannes e molto probabilmente  entrerà nella cinquina degli Oscar per il miglior lungometraggio straniero. Ma se ancora non siete convinti, mettiamola così: se una volta avete amato – o siete stati amati – questo è anche il vostro film. E non solo perché è la storia – come sostiene il suo autore, il bravissimo Pawel Pawlikowski -  di <un amore impossibile in un'epoca impossibile>: ma perché almeno una volta tutti siamo stati quell'uomo che guarda i passi di una ragazza che si allontana per sempre (o solo fino alla prossima volta). O quella donna che se ne va, dopo un estremo ripensamento, portandosi sulle labbra il sapore di un ultimo bacio.

E' uno straordinario, commovente, melodramma, <Cold War>, girato con magnifica eleganza, grande ispirazione nella composizione dell'inquadratura, inusuale e toccante partecipazione. La struggente canzone di un sentimento che resiste al tempo: la melodia, per musica e immagini, con cui il regista di <Ida> (premio Oscar per il miglior film straniero) esalta la forma (in un emozionante rigore stilistico) senza  rinnegare il racconto per  tradurre in immagini piene di senso (notevolissima e ricercata la fotografia che nelle sequenze ambientate all'Est richiama Jancso e Forman, mentre in quelle in Francia il cinema transalpino dei primi '60) sbalzi, crepe e rinunce di un amore che insegue se stesso.

Il continuo rincorrersi, lungo 15 anni (dal '49 al '64), tra le frontiere e i muri della guerra fredda, di Wiktor, un affascinante pianista in cerca di talenti e Zula, aspirante cantante, bionda e passionale. Si incontrano nella Polonia del dopoguerra, entrambi protagonisti di uno spettacolo di musica popolare che gira per l'Europa dell'Est. Basta poco, un gioco di sguardi, il tempo (che allora ancora c'era) di guardarsi negli occhi: scocca la scintilla, scoppia l'amore. A Berlino lui organizza la fuga, ma lei non si presenta all'appuntamento: incapaci di stare con o senza l'altro, si ritroveranno a Parigi e poi ancora a Varsavia. Delusi, sconfitti forse, ma ancora perdutamente innamorati.

Dedicato ai genitori del regista (di cui i protagonisti portano non a caso anche i nomi), <persone forti e meravigliose, ma disastrosi come coppia...>, <Cold War> lascia che il melò abbracci, come in un passo di danza, il musical (dove quello che si canta è importante tanto quanto o più di quello che viene detto), attraversando il folk per poi approdare al jazz, in una contaminazione sempre più romantica.  E mentre il faccione di Stalin campeggia sul palco e in sottofondo la radio suona Adriano e i suoi <24mila baci>, Pawlikowski, tenuta a battesimo la stella di Joanna Kulig (grande rivelazione di quest'anno di cinema), firma un capolavoro di sensibilità e passione in cui si domanda se esiste – da qualche parte e davvero – un sentimento destinato a durare per sempre. Capace di sopravvivere all vita, all'arte, alla politica, agli scherzi della Storia e ai rovesci del mondo. Capace di sopravvivere, persino, a se stesso.

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Rams: di uomini e di pecore. E di antichi rancori

Di uomini e di pecore. E' un film sospeso, dove il tempo non ha ragione di passare, <Rams>: ibernato in una terra di nessuno come un vecchio e cieco rancore di cui forse si è perso persino il filo, la causa, la ragione. Intransigente quanto l'astio e rigido come le stagioni, incastrato in un luogo non luogo dove il Natale lo festeggi da solo: e ti fai pure il regalo. Un film di barbe lunghe, risentimenti antichi e spessi maglioni di lana: ma, più di tutto, un film curioso. Che al giorno d'oggi no, non è poco. Singolare (e ruvido) nell'ambientazione – un'Islanda rurale e isolata, finalmente né da spot né da cartolina, in cui il paesaggio è terzo, spesso scomodo, interlocutore tra i due protagonisti -, spigoloso e reticente nei caratteri, onesto nel raccontare una normalità e un quotidiano (se felicemente o no giudicate voi) fuori dal mondo e dall'omologazione.

Gummi e Kiddi sono due anziani fratelli che non si parlano da 40 anni: i pochi, rari e per nulla concilianti, messaggi se li scambiano grazie a un cane, improvvisato postino. Entrambi pastori, vivono per superarsi all'annuale premio per il miglior montone: ma un giorno, a causa del pericolo di un'infezione, il sistema sanitario gli intima di abbattere tutte le loro bestie...

Vincitore di <Un certain regard> all'ultimo Festival di Cannes (la giuria era presieduta da Isabella Rossellini) e candidato a miglior film dell'anno agli Efa, gli Oscar europei, <Rams>, nonostante una locandina e un sottotitolo (<storia di due fratelli e otto pecore>) fuorvianti che lo vendono come una commedia (quando invece, al di là di una certa paradossale ironia, il contesto è più che serio), è un dramma familiare dove riconoscere l'inutile ostinazione dell'odio e del livore, un film di stati d'animo, magari sin troppo elementare e scarno, ma efficace nel cogliere, in quella ostile solitudine, il rapporto esclusivo tra uomo e natura e tra uomo e animale. Che può anche risultare, improvvisamente, commovente.

Un cinema di piccole cose e di poche parole ma di sentimenti fondi, ancorati, essenziali eppure stratificati, quello di Grímur Hákonarson, 38enne islandese all'opera seconda: dove, prima che sia troppo tardi, nella tormenta che infuria è anche possibile ritrovarsi e riscoprirsi fratelli.

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