Nato non creato, furioso come il tuono: è ancora tempo di Blade Runner
E' un occhio che si apre a un mondo che (non) c'è: un mondo orfano alla ricerca di un padre, di un'anima o almeno - ora come allora -, di un senso. E' un fiore nella nebbia, un dubbio improvviso e imprevisto nel mare morto della certezza: l'interferenza che agita un'immagine che arriva da lontano. Furioso come il tuono, nato non creato, <Blade Runner 2049>: aggrappato alla vita e alla forza dei ricordi, nella scoperta – filosofica prima che cinematografica (chi sono io? Non è forse questa la grande domanda?) - di sé. Nel mistero di una nascita che si porta addosso (come ogni nascita) lo sgomento, la paura: quella di perdere qualcosa che ancora non sai cos'è.
Atteso con terrore dai molti che ritenevano blasfemo il solo immaginare un sequel del cult movie di Ridley Scott, il nuovo <Blade Runner> diretto dal cinquantenne Denis Villeneuve (è il grande regista di <Arrival>, ma anche di <Sicario> e de <La donna che canta>) è invece un film ipnotico e affascinante, visionario e messianico, in cui ritrovare, oltre allo stesso mood dell'originale, frammenti e bagliori dell'oggi, dallo scontro tra generi e razze, a quello tra padroni e schiavi, là dove gli angeli di un dio cieco sognano ancora di assaltare l'Eden.
Trent'anni dopo le vicende del primo film (anche se in realtà da quello ne sono passati 35), nella Los Angeles del 2049 c'è ancora chi dà la caccia ai replicanti, androidi prodotti dalla più sofisticata ingegneria genetica: come l'agente K (ogni riferimento a Kafka non è puramente casuale) che, sotto la pioggia perenne di una città morente, prova a risolvere un caso che potrebbe avere conseguenze devastanti. Per farlo avrà però bisogno di ritrovare Deckard, l'ex poliziotto protagonista della pellicola dell'82...
Potente nella ricerca, ossessiva, di barlumi di umanità (quella che abbiamo perso), meraviglioso agli occhi (con quell'uso sinfonico, <musicale>, della fotografia, con i colori neon, gli ocra e i rossi saturi ispirati a una tempesta di sabbia, frutto del lavoro <monstre> del grande Roger Deakins), il film di Villeneuve (forte di un super cast dove non brillano solo Ryan Gosling e Harrison Ford) sparge ovunque rimandi continui al <Blade Runner> originale, ma senza copiarlo, piuttosto trasformandosi in un riflesso (perduto chissà dove nel tempo) di quello, in un'immagine, come nella bellissima sequenza d'amore, che si sovrappone a un'altra. Non replicato, ma replicante. E se nella solitudine del cyborg che spia le vite degli altri il regista franco-canadese coglie lo smarrimento delle nostre vite surrogate, i riferimenti alle inquietudini contemporanee (la spersonalizzazione dell'io, il sempre maggiore ricorso all'automazione, il virtuale-reale, lo sguardo verso il <diverso>, il caos climatico, le domande della bioetica, l'identità) sono molteplici: il resto è nostalgia (Elvis, Sinatra...) per qualcosa che non si è vissuto. E lacrime, ovviamente. Ma questa volta non nella pioggia: ma nella neve.