Freeheld: la battaglia civile del cinema lgbt
E' tempista più che bello, «Freeheld»: arriva nel momento giusto, nel pieno del dibattito, del confronto (spesso acceso, e non solo in Parlamento), sulle unioni civili, tra il ddl Cirinnà e l'ennesimo infortunio di Tavecchio. E parte da una semplice domanda, che galleggia tra le righe: perché le persone «lgbt» (un acronimo che sta per lesbiche, gay, bisessuali e transgender) non dovrebbero avere gli stessi diritti degli altri? Se lo chiede di continuo la piccola (un metro e 55 di star) Ellen Page, l'attrice di «Juno» e di «Inception» che, dopo avere fatto outing, sposa la causa interpretando e soprattutto producendo la storia vera (che aveva già dato vita a un cortometraggio poi premiato con l'Oscar) di Laurel Hester e Stacie Andree. La prima, brillante detective del New Jersey, scopre di essere malata terminale: ma prima di morire si batte sino all'ultimo perché la sua pensione vada alla compagna. Un caso che in America ha fatto scuola.
Attuale e civile, «Freeheld» (che arriva nelle nostre sale dopo «Io e lei» e prima di «Carol», in una stagione dove il cinema delle donne che amano le donne recita una parte importante) è però diretto in modo ultra convenzionale da Peter Sollett e appare mediocre dal punto di vista drammaturgico per potersi davvero candidare a film-manifesto.
Le interpretazioni sentite delle due protagoniste (la stessa Ellen Page e Julianne Moore) non riescono a togliere alla pellicola - debole rispetto ad altri film dello stesso filone («Philadelphia» su tutti) - una patina da tv-movie. I«Freeheld», per quanto doloroso e commovente, si espone così al rischio del ricatto emotivo puntando a un facile consenso: con una concezione oltretutto vecchia che poco ha in comune con la tradizione (e il coraggio) del grande cinema dei diritti civili.