Ocean's 8: la truffa è donna!
Il rischio di film come questi, simpatici, amabili e disintossicanti, è che finiscano sempre un po' per assomigliare al Brasile dell'82. Per carità, squadra pazzesca, meravigliosa, ma con due limiti non da poco: un portiere e un centravanti mezze schiappe. Proprio lì, nei ruoli cardine. Capita una cosa simile anche in <Ocean's 8>, glamour e modaiolo heist movie al femminile, spin off in piena era #metoo di una trilogia da più di mille milioni di dollari di incasso che si era già però esaurita naturalmente 11 anni fa. Se non è male l'idea di ricalcare truffe e gesta della banda Clooney in versione girl power, il lato (e il sesso) debole della vicenda è rappresentato dall'unico uomo in campo (sarà un caso?), il regista e co-sceneggiatore Gary Ross, che si limita a riproporre in chiave rosa gli schemi che fecero la fortuna degli Ocean's maschili, insinuando il dubbio che forse sarebbe stato meglio a questo punto avere una lei non solo davanti ma anche dietro la macchina da presa. Cattivi pensieri, è vero, ma Ross (che era partito benissimo, con <Pleasantville> per poi dirigere il primo <Hunger games>) è sì un buon regista, ma non ha il carisma né la personalità versatile di Steven Soderbergh (qui solo produttore) e il franchise, nonostante il film sia ironico e fashion, in qualche modo ne risente.
Una cosa però è certa: come cantava Marilyn, i diamanti sono (ancora) i migliori amici di una ragazza. Specie se li rubi senza farti beccare. Che poi è la specialità di Debbie Ocean, sorellina di quel Danny già noto (da <Ocean's eleven> in poi) ai nostri uffici. Uscita di prigione dopo 5 anni, 8 mesi e 12 giorni, la nostra mette insieme una formidabile squadra di ladre e truffatrici per realizzare un colpo clamoroso: rubare, durante un party super esclusivo, una collana da 150 milioni di dollari. Un furto sulla carta impossibile: ma anche il modo in cui Debbie vuole vendicarsi dell'uomo che l'ha mandata in galera...
Presentazione dei personaggi (l'amica di sempre, l'hacker senza nome, la stilista in disgrazia, l'accumulatrice seriale....), preparazione ed inevitabili impicci, gran soirée: va tutto come da copione, anche se rispetto ai film <maschili> della saga manca un po' di verve e anche il montaggio sembra un po' più piatto. Ma d'altra parte funziona il contesto pop chic, tra Bansky e Cartier, arte e moda, Tinder e hi tech, e la parte del leone (anzi delle leonesse...) la fanno ovviamente - mentre spuntano ovunque guest star di lusso (da Heidi Klum a Serena Williams) -, le solite sospette, otto protagoniste capitanate da Sandra Bullock (nel team, tra le altre, anche Cate Blanchett, Anne Hathaway, Rihanna e Helena Bonham Carter) che sono il cuore (e il core business) di una pellicola cool e spiritosa. Il piano insomma è infallibile, il film un po' meno: ma per il 28 luglio basta e avanza.
Free State of Jones, la contea dell'uguaglianza
C'è come un'aria di rivoluzione, un misto di rivolta e rimpianto, protesta e orgoglio, in certo cinema americano contemporaneo: come una lezione di Storia rimasta fuori dai libri, dove l'individuo si fa massa e spezza le catene, sfida il potere costituito, scrive il suo no col solo inchiostro che gli è rimasto: il sangue. In attesa di <The birth of a nation> (che esce, con poco senso, a sole due settimane di distanza), tocca al Gary Ross (suo il primo <Hunger games>) di <Free State of Jones> sventolare il vessillo della libertà negata e ritrovata con un film epico e secessionista, politico e ferito, antisistemico e arrabbiato, ribelle e interrazziale, dove <i poveri combattono la guerra dei ricchi> e tutto cambia per non cambiare mai.
Storia vera di Newton Knight (un intenso Matthew McConaughey), disilluso soldato sudista che decide di disertare: insieme ad alcuni contadini defraudati e a un gruppo di schiavi neri fuggitivi si opporrà all'esercito confederato fondando un libero Stato basato sull'uguaglianza.
Flop in patria, eppure vigoroso, il film, nonostante alcune banali reminiscenze di <Robin Hood> e di <Braveheart>, si interroga non senza costrutto critico sulla schiavitù sociale (<siamo tutti schiavi di qualcun altro>), malattia endemica di un'America ancora oggi vittima di forti sperequazioni. Appesantito da una patina di cinema iper classico, <Free State of Jones> (che pesca anche qualche sequenza veemente, come la sparatoria al cimitero) ha però un bel guizzo nell'inframezzare la vicenda di Knight con quella, ugualmente emblematica, di un suo pronipote, a processo quasi 90 anni dopo nei sempre razzisti States: prova provata che muore solo quello che non si è seminato.