Recensione, 2020 Filiberto Molossi Recensione, 2020 Filiberto Molossi

Tornare: la Mezzogiorno in cerca di se stessa

«La memoria si ricorda solo quello che si vuole ricordare». Perché il passato è così: ha la consistenza del fango. È materia molle, rischi, alla lunga, di rimanerci invischiato. Si svela già dal titolo, «Tornare»: che ha dentro il «nostos» greco, che qui è viaggio dentro di sè, come anche il «volver» spagnolo e almodovariano, in quel suo essere cinema del riavvolgersi, del riscoprirsi. Là dove il confronto con gli spettri del passato è inevitabile oltre che necessario, quando quella ragazzina nella foto non sembri più nemmeno tu. Cerca di ridare una forma al suo specchio interiore, andato in frantumi molti anni prima, la protagonista del nuovo film di Cristina Comencini, dramma psico (e auto) analitico tormentato, ma poco spontaneo e fin troppo premeditato: la scontata elaborazione di un trauma rimosso (e di un lutto: la morte dell'innocenza) che sfocia nel giallo esistenziale. Alice torna dopo lungo tempo nella Napoli (velata) degli anni '90, per partecipare al funerale del padre: ma la casa di famiglia e i luoghi della sua infanzia, le risvegliano ricordi che pensava di avere smarrito per sempre... Nelle stanze vuote del labirinto dei giorni perduti, la Comencini celebra l'incontro (rimandato troppe volte) tra una turista malinconica delle sue stesse reminiscenze, ribelle invecchiata ed ex ragazza sbagliata, con la se stessa che fu e in cui ormai fatica a riconoscersi: e sulle strada dissestata del rimosso gira un film borghese, intimo, inquieto. Che dietro (come è chiaro sin da subito) si porta dietro un segreto, un peso, un'ombra. Ma seppure evocativa, la pellicola non è mai particolarmente appassionante, anzi risulta un po' meccanica e non del tutto inedita nel congegno narrativo. Poco aiutata, nella ricerca della verità, anche dagli interpreti: se Giovanna Mezzogiorno sembra avere dissipato nel tempo la sua bellezza e la sua convinzione, Vincenzo Amato è di monocorde ambiguità. L'unica a portare nel film - non solo per l'età - una ventata di freschezza è Beatrice Grannò, bella scoperta appena vista anche nella serie «Doc» dove interpreta la figlia del protagonista Luca Argentero.

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Nella Napoli velata i fantasmi di Ozpetek

E' pieno di fantasmi, di ombre, di ricordi rimossi, di segreti taciuti, nascosti in un armadio sempre chiuso, dimenticati volutamente nella soffitta del destino, il cinema di Ferzan Ozpetek, in bilico tra il lutto (da elaborare, affinché la vita si faccia strada di nuovo) e il mistero della perdita, sempre alla ricerca di risposte difficili da condividere, eppure pronto, non senza sofferenza, a squarciare quel velo (o quello schermo?) che ci separa da una realtà a volte troppo dolorosa da comprendere, ma soprattutto da accettare. Inizia su una scala che è insieme vertigine, segno psicanalitico  e omaggio a Hitchcock per poi smarrirsi volontariamente nelle strade di una Napoli borghese e arcana, erotica e barocca, pagana e mistica, carnale ed esoterica, il nuovo film del turco d'Italia: che segue con apprensione Adriana (Giovanna Mezzogiorno), medico legale che trascorre una notte di passione con Andrea (Alessandro Borghi, lanciatissimo), un ragazzo più giovane conosciuto la sera stessa. I due decidono di rivedersi il giorno dopo, ma l'uomo non arriverà mai all'appuntamento: barbaramente ucciso apparentemente senza motivo...

Occhi che guardano senza essere visti ma senza nemmeno vedere, occhi chiusi, occhi rubati, morti, scolpiti: là dove la verità, chiara ma non provata, resta leggenda e il dubbio si insinua nelle vie tortuose della mente, Ozpetek gira un thriller esistenziale che indulge troppo al simbolismo, un giallo dove l'indagine è soprattutto interiore, un viaggio tortuoso in cui la protagonista sarà costretta a prendere coscienza delle proprie fragilità.

Il regista di <Saturno contro> e <La finestra di fronte> gestisce benissimo gli spazi, i pieni e i vuoti di una città di cui si appropria - un autobus, le scale mobili, le stanze di un museo...: (non) luoghi dove rimbombano solitudini e ossessioni -, ma si perde in divagazioni narrative non particolarmente riuscite, attratto inoltre da un grottesco poco funzionale all'ambiguità della storia. Ozpetek, va detto, non cerca scorciatoie, se può anzi si complica (coraggiosamente) la vita: ma inciampa d'altro canto nel tema (stravisto) del doppio, annacqua la bellezza di certi piani sequenza con i limiti di una sceneggiatura poco compatta. Peccato perché il film cresce nel finale, che l'autore cuce (con astratto realismo) con precisione e maestria: ma quel rumore di tacchi che si perde nel nulla è la promessa invisibile di una carezza mancata, di un desiderio non completamente appagato.

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