La felicità è un sistema complesso: Mastandrea tra dolore e leggerezza
E' un bel soggetto Gianni Zanasi: uno che arriva dalla patria delle ciliegie (Vignola, Modena) e si porta dietro una faccia da fumetto di Pazienza. Uno di quelli li', che sembrano sempre entrati a meta' del secondo tempo. E, tra le altre cose, ti gira un film (bello) come <Non pensarci> da cui fanno pure una serie quando ancora non andava di moda: e poi per rimettersi dietro la macchina da presa ci mette 7 anni, per non dire 8.
Che lo guardi e fa fatica a non starti simpatico: perché e' davvero un po' senza difese come il suo cinema. A cui finisci per volere bene senza sforzo perché e' empatico, vitale, privo di lacci. Pieno di freschezza e di energia, anche se imperfetto. Ma forse più per generosità che per difetto.
E' il caso anche de <La felicità è un sistema complesso>, commedia seria che nasce e muore agrodolce in cui il cinquantenne regista emiliano segue le tracce di Enrico Giusti, manager di un grande studio specialista nel convincere giovani e scellerati capitani di industria a cedere le loro aziende prima di un inevitabile tracollo, prima che sia troppo tardi per tutti, dipendenti compresi. Due incontri pero' fanno vacillare le sue certezze: quello con una giovane e spaesata israeliana, che gli molla in casa l'inaffidabile fratello minore, e un secondo con due ragazzini, orfani ed eredi di un grande imprenditore...
Nel Paese <in cui non e' mai colpa di nessuno>, dove tutti hanno perso qualcosa o qualcuno, un film con la faccia pulita che, tra profitto e etica, misura l'inconfessato smarrimento di un protagonista irrisolto dei nostri giorni, <salvatore> di professione che non sa salvarsi da solo. Un percorso esistenziale a tratti anche molto divertente quello <La felicità è un sistema complesso>, che ha dentro un misto di dolore e leggerezza, di rancore e tenerezza: un film che ti permette di dare del tu a tutti i personaggi e magari anche di andarci a prendere l'aperitivo fuori, anche se non immune da sbavature, da qualche scarto. Come una certa insistenza negli inserti surreali, l'eccessivo ricorso alle canzoni, qualche momento che sembra affetto da autocompiacimento. Piccole note stonate ricucite e restituite al tutto da un gruppo di interpreti molto complice e in palla, a partire da un Valerio Mastandrea sempre più bravo, dall'imprescindibile Giuseppe Battiston, ma anche dall'israeliana Hadas Yaron che, miglior attrice alla Mostra di Venezia nel 2012 per <La sposa promessa>, si lascia catapultare da un altro mondo nella folle <banda Zanasi>.