Un giorno e una notte tra i cuori infranti del Tokyo love hotel
Tra le macerie (anche sentimentali) del dopo tsunami, dove il sesso è più che altro clandestino e mercenario, estremo modo di comunicare in un mondo in cui è sempre più difficile capirsi, 24 ore – da una mattina all'altra – di un'umanità in cerca d'autore (e di amore), bloccata in uno stallo che è temporaneo solo in apparenza: là, fra molti segreti e altrettante bugie, nell'incrocio trafficato delle solitudini e dei cuori infranti, nella moltitudine delle voci differenti e invariabilmente inascoltate di un malessere diffuso. Lo stesso in cui si specchiano sopravvissuti al presente e sopravviventi a tutto ancora in cerca di qualcosa di meglio, se mai davvero esiste, se mai davvero c'è.
E' un film pieno di squallore e tenerezza, compassione e ironia, pasta precotta e tute dell'Adidas, <Tokyo love hotel>, affresco del Giappone contemporaneo tratteggiato nelle stanze di un albergo a ore. Uno di quelli, uguali a mille altri, di cui il regista Hiroki Ryuichi (lunga gavetta nel soft porno e persino nel sadomaso prima di guadagnarsi sul campo i gradi dell'autore) conosce da vicino l'assurda e inguaribile malinconia: un posto come l'Atlas, nel quartiere a luci rosse di Tokyo, che il giovane Toru, licenziato da un hotel a 5 stelle, gestisce con rassegnazione, guardando passare, insieme al tempo che resta, coppiette, squillo, vecchi pervertiti e inguaribili romantici.
La prostituta che non ha detto nulla al suo fidanzato, il ricercato che da 15 anni vive nascosto in un armadio, quello che scopre che la sorella gira film per soli adulti, quell'altro ridotto a distribuire volantini perché non ha accettato il pre-pensionamento: in bilico tra amarezza e speranza, paradosso e illusione, un film corale (scoperto al Far East di Udine dell'anno scorso) dove l'aria (poco) serena dell'Est spettina sogni e bisogni (così come desideri frustrati e aspirazioni negate) di un'insoddisfazione comune. Empaticamente vicino (come Murakami in certi romanzi) ai suoi personaggi (che hanno tutti qualcosa da nascondere, a volte anche a se stessi), il regista giapponese lascia però socchiusa la porta del lieto fine, non prescindendo mai da un umorismo surreale che rende meno dolorose le cadute di naufraghi e perdenti pronti a rialzarsi e a ripartire. Decidendo, sulla propria pelle, da che parte stare.