2023, Recensione Filiberto Molossi 2023, Recensione Filiberto Molossi

Avatar, io ti vedo: la via del successo

«La felicità è semplice». Anche se passeggera. Forse è proprio lì, in quella prima frase, quando stai ancora cercando di regolare la poltrona reclinabile, il segreto. E' lì la spinta che ti fa zittire Siri e Alexa, uscire dalle invadenti piattaforme, dimenticarti persino dello smartphone: e indossare occhiali 3 D che credevi già reperto archeologico per immergerti per oltre tre ore nel liquido amniotico della meraviglia. Là, nell'abisso per nulla quieto dove un altro mondo (e un altro modo) è possibile: ma che ha senso e innesco solo - ed esclusivamente - in quella scatola magica che chiami sala, in quella casa-chiesa dove il rito diventa esperienza, visione, frontiera.

E allora sì, «io ti vedo»: in quel kolossal ibrido e eco-pacifista, tribale, avventuroso e ribelle che celebra un universo meticcio e inclusivo c'è il (pro)fondo di un luogo segreto dove battono i cuori. Ancora. Insieme. Perché non si può non riconoscere al sequel, atteso e tardivo, del film che ha incassato di più di tutti nella storia del cinema, il fascino del pezzo unico, la suggestione - gigante - di un oggetto che per quanto reiterato resta irripetibile: un sogno monstre, sbalorditivo dal punto di vista tecnico (e tecnologico), che James Cameron, affinché possa stare a galla fa tuffare in 3 milioni e mezzo di litri d'acqua, quelli della grande piscina dove la pellicola è stata girata, o per meglio dire concepita.

Spettacolare e iperconnesso (con la natura, col mondo...), «Avatar-La via dell'acqua» riannoda i fili (e le code...) riassumendo rapidamente i tredici anni trascorsi dall'originale: Jake Sully, il caporale che si schierò con i nativi guidandone la resistenza vive come capo dell'Omaticaya su Pandora con la sua compagna Neytiri. I due hanno avuto tre figli, un'altra l'hanno adottata e si occupano anche di un ragazzo umano. Una grande famiglia minacciata però nuovamente dalla guerra. E dalla vendetta. Da qui la decisione di abbandonare la foresta chiedendo ospitalità al clan della barriera corallina, dove è la legge del mare a comandare...

Spirituale, next age, molto attento alle rivendicazioni care agli adolescenti di oggi (il tema dell'identità, il rapporto tra genitori e figli che spesso non si sentono all'altezza gli uni degli altri, la forte spinta e convinzione ambientalista), in «Avatar 2» il moderno misticismo ecologista incontra la terrena forza (ultra) familista (che è il perno morale dell'intera pellicola): Cameron, messa al bando la logica della sopraffazione e del profitto di un'umanità già morta che però (in un rapace e incontrollato desiderio di eternità) non vuole morire mai, fa del suo kolossal un film sull'incontro e sulla comprensione. E allora ecco, in un 3 D subacqueo funzionale alla creazione di un mondo costruito sulla «profondità», gli echi (come nel primo episodio) delle guerre indiane, del Vietnam, persino dell'invasione russa in Ucraina, di «Atto di forza» o (autocitazione non da poco) di «Titanic»; sacrificio, autoesilio, lutto, rinascita, ricordo, espiazione, scelta: gli occhi hanno la meglio sulla narrazione, lo sguardo è sempre più appagato del cervello. Ma il regista di «Terminator», che della saga di Pandora ha già in agenda i capitoli 3, 4 e 5, riesce anche stavolta nel miracolo di girare un blockbuster senza rinunciare alle pretese d'autorialità, qualcosa che sta, per capirci, tra Leibniz e il milk shake. Il risultato è potente anche se, con tutta onestà, devo ammettere che mi hanno interessato ed intrigato di più i due minuti del trailer di «Oppenheimer» di Nolan (esce a luglio, calma) che i 192 di questo secondo «Avatar».

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Filiberto Molossi Filiberto Molossi

Terminator: se il vecchio Schwarzy incontra se stesso più giovane

<Sono vecchio, non obsoleto>. Dice di essere un esubero, ha i capelli prima tinti e poi bianchi e qui lotta addirittura, suonandogliele di santa ragione (in una scena cult...), con il suo se stesso di trenta anni più giovane. E sì, ti fa anche un po’ di tenerezza: proprio lui, ex culturista con un cognome impronunciabile partito per Hollywood da un paesino dell’Austria, che, tra un film e l’altro, è diventato una star, ha sposato una Kennedy e ha persino governato la California...
Certo, un po’ rigido (tipo che un’asse da stiro si muove con maggiore scioltezza...) lo è rimasto: ma più che gli anni (68 a fine mese) potè il ruolo. Perché Arnold Schwarzenegger torna, a 12 anni dall’ultima volta e ben 31 dall’inizio di questa fortunatissima saga, a giocare al robot: cyborg umanissimo (e non ancora arrugginito, almeno non del tutto) del quinto «Terminator». Una sorta di falso reboot che rilancia le ambizioni (ma sarà il botteghino ad avere l’ultima parola) della cine-serie portata al successo planetario da James Cameron, nel tentativo (lo stesso dei protagonisti del film) di modificare i connotati alla storia («non mi devi salvare, la musica è cambiata...») per resettarla e farle prendere un’altra strada. Spettacolare e «politico» nella sua ribellione alla dittatura tecnologica (la promessa diabolica di un mondo connesso permanentemente, che poi è già qui, è già questo...), «Terminator Genisys» salta senza paracadute dal 2029 al 1984 per rimbalzare in un più comodo e contemporaneo 2017: una serie di scarti temporali dove si può abbracciare anche un figlio che non si è mai avuto, mentre si cerca di garantire un futuro a sé e al mondo. L’action tiene, ma gli effetti sono vintage, l’aria è da b-movie, l’improbabile spesso oltre la decenza: e la densità malinconica dell’originale viene un po’ smarrita e dissipata nella voglia di fare casino. Per fortuna però Schwarzy (chiamato ancora una volta a proteggere Sarah Connor, che qui ha il volto di Emilia Clarke, superstar del televisivo «Il trono di spade», ancora acerba però per essere una credibile eroina cinematografica) porta in dote al film una salutare (il regista Alan Taylor in fondo aveva debuttato con una commedia, il gioiellino «Palookaville») auto-ironia: l’humor e la voglia di non prendersi troppo sul serio di chi ne ha viste parecchie e ne vorrebbe vedere (e fare) altrettante.

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